Ma cos’è davvero la realtà e quanto dista dalla nostra percezione

Quando studiavo all’università mi ero imbattuto in un’espressione affascinante, di quelle che ti rimangono impresse. Almeno a me, era rimasta impressa, ad altri magari non aveva prodotto nessuna particolare impressione, una disparità dovuta proprio all’espressione che segue.
“Esiste il macrocosmo fisico-biologico e il microcosmo fenomenico”.

Se volessimo tradurre quelle parole, diremmo che esistono le stelle, i pianeti, il mare, i sassi, gli alberi, le persone, gli animali, che ognuno degli esseri umani li vede coi suoi occhi e li interpreta di conseguenza, ragione per cui tutti quegli oggetti e tutte quelle creature sono diversi per ciascuno degli spettatori.
Dunque, non esiste una sola realtà, e per questo definirla una volta per tutte risulta pressoché impossibile.

Il ragionamento, mi pare, non è difficile da capire, tuttavia, quando ci confrontiamo con una qualsiasi persona, quando educhiamo, quando facciamo gli insegnanti, persino quando siamo noi gli educandi, gli alunni, gli studenti, dimentichiamo tale premessa, e in qualche modo chiediamo a chi ci sta di fronte di accettare -anche senza dirlo esplicitamente- la nostra visione della realtà. Non consideriamo che l’altra persona si è presentata all’appuntamento, in classe o in ufficio, una fila di fotogrammi del tutto alieni dalla nostra galleria, che nel suo archivio interiore il mondo è catalogato in modo alquanto diverso da come risulta catalogato nel nostro.

Questo equivoco mi è tornato in mente un mese fa, mentre mi confrontavo con una cinquantina di liceali. Immaginavo cosa accade la mattina in una classe, quando confluiscono simultaneamente 25 storie, 25 risvegli, 25 faldoni lasciati in sospeso, il cui contenuto monopolizza la nostra testa mentre la scuola ci chiede di fare dell’altro, mettendo tra parentesi ciò che preme dall’interno. Penso all’insegnante che arriva in classe “inversa” o al bambino tormentato dai pensiero di non valere nulla.

Non è facile sfuggire a questo automatismo, rispondere subito col fastidio, col giudizio, ma a volerlo non sarebbe neppure impossibile, anzi non lo è affatto. Si potrebbe provare, magari una sola volta, a chiudere gli occhi e fare l’opposto di ciò che ci suggerisce l’abitudine.   

4 pensieri riguardo “Ma cos’è davvero la realtà e quanto dista dalla nostra percezione

  1. Mio figlio, terza superiore, soffre moltissimo lo stare in classe.
    Non soltanto stare seduto cinque ore in un banco troppo piccolo ma la fondamentale mancanza di fiducia; l’essere sponati a parole all’originalità e all’indipendenza di giudizio salvo essere puniti ogni volta che ci si discosta dall’ossessione e dal recinto del programma per guardare oltre; semplicemente il non vedersi riconosciuti.
    Questa scuola ci mette del suo: è di poco fa la notizia che si vorrebbe inserire un tutor professionalizzante ben prima delle superiori.
    Ma la scuola debba formare persone, cittadini, teste pensanti e non lavoratori.

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    1. La riforma di Giovanni Gentile, lo abbiamo già detto, tendeva a cristallizzare la condizione sociale dei cittadini, divisi già a scuola tra destinati alle professioni “alte” e coloro che avrebbero seguito la strada del lavoro manuale. Concordo pienamente con lei, ogni studente dovrebbe essere messo in condizione di formarsi nel modo più completo possibile, di scegliersi il proprio destino autonomamente, senza che sia la scuola a farlo al suo posto. La ringrazio.

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      1. Le riforme seguenti, dagli anni Settanta, hanno peggiorato ancora di più, livellando verso il basso. Mio figlio mi faceva notare che oggi è molto pesante il cosiddetto abbandono scolastico interno, cioè persone che tra l’inizio e la fine di un ciclo non hanno imparato davvero nulla di più.
        Riguardo alle relazioni all’interno dell’ambiente scolastico vorrei aggiungere che la naturale asimmetria del rapporto insegnante studente dovrebbe portare il primo ad una costante prudenza, nella coscienza che il suo avere il coltello dalla parte del manico gli dà il dovere di affettare il pane per tutti e non il potere di mettere l’alunno, che non è nelle condizioni di rispondere, in soggezione. È il tema che lei tratta spesso della responsabilità nell’educazione.
        E se l’insegnante che entra in classe “inverso” avesse il coraggio di ammettere pacatamente il suo stato potrebbe scoprire che i ragazzi sono molto più comprensivi di quanto si pensi, quando trovano parità umana nella differenza dei ruoli.

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      2. La considerazione finale mi trova d’accordo, aggiungo solo che ammettere uno stato di fragilità significa possedere una grande forza
        interiore e un’autorevolezza non comune. Anche questo percepirebbero i ragazzi, beneficiandone.
        Credo anche questo, soprattutto in questo tempo di giganti di cartone, sarebbe pedagogico e avvicinerebbe le generazioni, oramai liberate della logorante necessità del gioco delle parti.

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