Educare non è una questione di ruoli 

Mentre mi libero di alcuni file che pesano sulla memoria del mio computer, mi imbatto in una bella lettera che pochi anni fa avevo ricevuto da un sacerdote. 

Quelle parole mi avevano rinforzato nella convinzione che le questioni relative alla genitorialità non possono essere affrontate in modo ideologico, mentre è necessaria una plasticità infinità, dal momento che ciascun figlio è intestatario di una sola possibilità, la propria, a cui bisogna consentire di liberarsi. 

Al contrario, l’ideologia stabilisce in anticipo ciò che deve succedere, finendo per imprigionare proprio quella vita che dice di volere tutelare e rispettare, trasformando l’atto di educare in un’opera di colonizzazione dalla quale non è la vera natura del bambino ad affiorare bensì le nostre idee. 

Uno spreco enorme, di talento e di originalità. 

“Stamattina mentre ascoltavo la radio, sentivo qualcuno indignarsi alla prospettiva di mettere dei bambini in mano a genitori dello stesso sesso e per giunta omosessuali. Vorrei ricordare che la Chiesa da secoli permette l’esistenza dei seminari minori, in cui vengono accolti bambini da avviare al sacerdozio. Io sono stato uno di questi, avevo 10 anni quando mi sono separato dalla mia famiglia. Per altri dieci i miei educatori sono stati sacerdoti, cioè maschi. Eppure, io ero il più fortunato, perché ogni 15 giorni i miei venivano a trovarmi, mentre quasi tutti gli altri bambini vedevano i loro molto raramente. Le nostre mamme e i nostri papà erano solo e soltanto dei maschi, talvolta omosessuali, giacché questa condizione era ed è piuttosto diffusa tra i sacerdoti e i seminaristi. Io non sono diventato gay e neppure altri miei compagni, lo sono diventati coloro che mostravano già segni di questo orientamento. Come vede, non sono state le coppie omosessuali i primi soggetti a violare disinvoltamente il diritto del bambino ad avere un padre e una madre. Ora sembra non vada più bene perché sono altri a chiederlo”.

Non mi pare vi sia altro da aggiungere alle parole del sacerdote.

Il dibattito ultimamente è molto concentrato sul modo in cui arrivano i figli, quasi mai sul rispetto che ad essi dobbiamo. Certo i figli non sono un obbligo, ma educare responsabilmente lo diventa sempre di più, e questo non perché i figli siano un problema, semplicemente perché il loro mondo interiore si fa ogni giorno più complesso seguendo il profilo dei tempi, a loro volta più impegnativi di ieri e dell’altro ieri. Interfacciarsi con le nuove generazioni richiede competenze accresciute e aggiornate, oltre che una formidabile passione, qualità che prescindono da ruoli specifici. Infatti, né la maternità, né la paternità e neppure l’insegnamento abilitano di per sé al compito educativo, semmai illudono che possa esistere un tale grazia di stato. 

Una trappola che, nella migliore delle ipotesi, rende pigri, svogliati, poco inclini a prepararsi, ma questo farà la differenza perché solo chi mette in preventivo un impegno costante potrà sperare in una traversata pacifica. 

Non si diventa educatori per diritto di ruolo, occorre studiare e guardarsi da chi dedica troppo tempo a dibattere sull’origine dei bambini invece di preparare programmi di vicinanza a chi è impegnato quotidianamente con la prole. La realtà dimostra tutti i giorni che il sistema educativo scricchiola perché non ci sono contributi qualificati da chi dovrebbe portarne. Le guerre ideologiche sulla pelle delle nuove generazioni non servono a nulla, sarebbe meglio aprire una grande stagione di competenza, che irrori la famiglia, quale che sia, affiancandola in modo continuativo, anche liberandola da gravami economici, spesso insostenibili, generati da malesseri difficili da affrontare senza l’ausilio di supporti esterni.

2 pensieri riguardo “Educare non è una questione di ruoli 

  1. Caro Domenico, grazie come sempre per le tue riflessioni.Spesso dici che la vita è vita comunque ci raggiunga e per questo bisogna solo pensare a come accoglierla al meglio. Sono pienamente d’accordo. Penso che il percorso che porta alle adozioni vada reso più agevole ed accessibile da parte di coppie (comunque esse siano assortite) e persone sole. Così come il riconoscimento di coppie omogenitoriali.

    Trovo invece davvero complicata la questione della maternità surrogata: ci sono paesi dove è consentita anche nella forma commerciale e non solo altruistica, in sostanza sfruttamento del corpo di donne che si trovano in una situazione di povertà economica e a volte non solo…ed un grande business per cliniche ed agenzie specializzate.Come spiegheremmo a nostro figlio che per rispondere all’ istinto di trasmettere il nostro patrimonio genetico, abbiamo fatto ricorso a tale pratica? Non partiremmo forse con il piede sbagliato dando un pessimo esempio testimoniale?Anch’io, dopo aver avuto un figlio, ho provato l’istinto di donare, attraverso il mio corpo, la possibilità di diventare genitori ad una coppia a me molto cara, ma mi sono dovuta arrendere alla consapevolezza che sarebbe stato più facile ignorare la provenienza di quella cellula fecondata piuttosto che una gravidanza ed un parto.Insomma riconosco di essere vittima di quello che tu chiameresti abuso di soggettività. Per questo chiedo, se possibile, una tua riflessione in merito. La tua lucidità ed onestà intellettuale riescono sempre ad illuminare una via percorribile nella confusione.Grazie

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    1. Cara Michela, non posso che essere d’accordo, nello spirito e nella sostanza.
      I figli di provenienza non tradizionale, se possiamo usare quest’espressione, sono assetati di informazioni relative al loro passato, desiderano ardentemente conoscere l’intera “filiera” della loro origine. Quando questo desiderio rimane inappagato, provano angoscia, la stessa che promana dall’ignoto. Da questo puoi desumere quanto sia laborioso parlare di gestazioni in cui uno dei contributori non è rintracciabile e quanto lo sia ancora di più ragionare di utilizzo spregiudicato del corpo altrui. Temi di enorme impegno, perché alla radice, a parte deplorevoli eccezioni mercantili, c’è il misterioso e potente desiderio di lasciare traccia di noi, di vederci prolungati nel tempo, a qualunque costo. Proprio perché si tratta di argomenti di profondo impegno esistenziale, tutti dovremmo accostarci ad essi con lo stesso rispetto che sento nelle tue parole.
      Trovo disonesto e meschino, invece, andare a caccia di facile consenso, speculando sui grandi interrogativi della vita, solo per il gusto di mostrare i muscoli, inseguendo convenienze lontane dall’interesse comune, spesso per parlare d’altro, non possedendo idee su come accompagnare i cittadini. Le famiglie, quale che sia la loro storia, necessitano di competenza e di solidarietà, per questo eleggiamo i nostri rappresentanti e abbiamo il diritto di esigere da essi che esibiscano progetti con un capo e una coda, soprattutto quando c’è di mezzo la famiglia, invece di inseguire fratture ideologiche per nascondere la propria impreparazione. Non si scherza con la vita, non solo con quella prima di nascere. Un caro saluto e grazie del tuo contributo

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