Lettera di una maestra che conosce il valore dello sguardo

Dopo la lettera del preside milanese Daniele Gomarasca, ospitiamo una riflessione altrettanto potente di una maestra, anche lei lombarda, con oltre trent’anni di insegnamento alle spalle. Sono certo farà riflettere, come è accaduto con Daniele, anche chi è o crede di essere lontano dal mondo della scuola.

Mentre leggevo la lettera del Preside Gomarasca, affioravano in me una serie di immagini relative alle bambine e ai bambini con i quali ho condiviso la mia esperienza scolastica di insegnante della scuola dell’infanzia negli ultimi anni.

La prima immagine è quella di un dono, un foglietto disegnato in orizzontale, che tengo sul comodino, in cui Isabel ha rappresentato con le matite colorate, per un terzo dello spazio, un mare rosso, con delle onde ben organizzate e con una cadenza quasi ritmica, che contengono dei cuori più scuri, colorati con un pennarello. La restante parte dello spazio è dipinto in azzurro, un cielo cosparso di spirali, che durante l’anno, i bambini avevano individuato come simbolo della vita. Isabel, una bambina riservata e silenziosa, l’ha realizzato l’ultimo giorno del suo ultimo anno di scuola, “Questo è per te, te lo regalo!”, ed è la stessa bambina che ogni trenta giugno piangeva, insieme ad un altro compagno, perché la scuola finiva. 

I bambini della scuola dell’infanzia sanno perfettamente che il loro dentro è pieno di mari mossi di emozioni, che a volte li travolgono, ma incontrano una grande difficoltà comunicativa, o meglio gli adulti che incontrano spesso non riescono ad intercettare la loro modalità comunicativa, perché le parole che i grandi vorrebbero sentire non sono quelle che i piccoli utilizzano per esprimere al meglio il proprio vissuto, e quindi si ritrovano a non essere capiti e per essere accettati e accolti, provano ad adeguarsi ai desideri dell’adulto di turno. Con Isabel avevamo un codice personale, con parole misurate e discrete.

Ecco il primo pensiero che emerge: a scuola l’agire delle bambine e dei bambini non può essere nell’ottica dell’adattamento, ma in quello dell’emancipazione intesa come l’acquisizione della consapevolezza, con le proprie differenze, di essere una bambina e un bambino, che partecipa attivamente al proprio percorso di crescita, perché ascoltata e ascoltato dall’altro e rispettato proprio nella sua essenza di bambina e bambino.

Nella lettera si parlava della scuola come casa, non come famiglia, un luogo ideale in cui creare relazioni che fanno stare bene, dove lo sguardo che incontri ti riconosce e ti accoglie senza invaderti e sedurti, perché ti lascia libera e libero e non ti spinge alla dipendenza emotiva.

La seconda immagine è quella di un bambino con un vissuto familiare un po’ faticoso, che aveva il divieto di condividere verbalmente le sue difficoltà, ma di cui sentiva un bisogno impellente, e le parole esplodevano dentro di lui, trapelando attraverso i movimenti e i gesti. Ed eccolo una mattina, seduto sul tappeto tranquillo, con una bambina che ancora non parlava, iniziare a raccontare, raccontare, raccontare “Lo sai Ludo che …” e lei che lo guarda negli occhi e lo ascolta, senza mai interromperlo e mantenendo la stessa postura, accogliente, come solo sanno fare i bambini che capiscono.

Un’ulteriore riflessione: la scuola-casa è quella in cui c’è sempre qualcuno che ti può ascoltare e che non ti propina continuamente dei consigli, ma in cui le bambine e i bambini hanno la certezza che le loro narrazioni hanno un valore.

Una successiva immagine si fa notare: Matteo spaesato, nuova scuola, nuovo paese, nuova lingua, nuova casa … gli manca tutto della sua vita precedente, tranne i bombardamenti sull’Ucraina. Provo a giocare in silenzio con lui, ogni tanto accetta una carezza ma il suo sguardo è lontano e triste. Poi una mattina Elias si siede sul tappeto delle costruzioni vicino a lui. Inizia in silenzio a giocare al suo fianco, come avevo fatto a settembre al suo arrivo da un’altra scuola, anche se per molto tempo era rimasto in contatto solo con la sorella gemella. Si scambiano gli sguardi, i sorrisi e, dopo qualche minuto una torre cade e subito esplode dopo una risata. “Aure, Matteo ride!” fa notare una bambina. Un incrocio di sguardi sorridenti e di benessere con la collega, ci permettono di superare la discrezione e i timori di non riuscire a creare dei fili di connessione con un bambino che aveva visto crollare la sua casa e che con una risata ci ha surclassate iniziando a tessere nuove relazioni.

La scuola è il luogo dove, anche se sono solo, qualcuno si accorge di me, trova un modo semplice per entrare in sintonia e, dopo le prime note di prova, si può elaborare insieme una sinfonia mai compiuta definitivamente.

Un’ultima serie di immagini: i bambini nei campi fra il grano maturo verso l’isola che non c’è, in mezzo alla camomilla, a cercare di intervistare un tronco-dinosauro abbattuto da un fulmine, ad osservare in silenzio i girini in un fosso, seduti in un prato ad ascoltare una storia, in corridoio per realizzare un grande dipinto di un bosco comunitario, seduti sul pavimento a dibattere sui contrari e sul “non” che rende contrario, in aula ad elaborare il progetto di riqualificazione urbana per uno spazio comunale libero da trasformare in giardino, lavorando insieme, in modo cooperativo, perché noi siamo come “la natura, che serve per fare compagnia a qualcuno quando è solo e sceglie con l’acqua e con il sole e con il vento e con la terra. È un lavoro insieme”, parola di Gaia.

La scuola casa è dove qualcuno osserva discretamente i bambini mentre giocano, quando progettano, quando scoprono … in ogni istante della loro giornata scolastica e dove si ascoltano i loro pensieri, dove l’adulto si confronta con loro, per elaborare insieme dei percorsi di conoscenza che li interessano realmente, senza dimenticare che spetta all’adulto tirare le fila dei processi di apprendimento e ai bambini vivere ogni istante della giornata scolastica con gentile entusiasmo e immenso rispetto dell’altro, anche nel silenzio e illuminati dalla luce delle candele come in un pranzo romantico.

Aureliana Baldani

4 pensieri riguardo “Lettera di una maestra che conosce il valore dello sguardo

  1. Trovo questa lettera meravigliosa, intensa e commovente. Non riesco ad aggiungere altro. Posso solo dire, da maestra d’infanzia quale sono anche io, che queste parole profonde e vissute sono arrivate alla mia anima. Vorrei davvero che potessero arrivare al cuore di molti, anche e soprattutto a quello dei non ” addetti ai lavori”
    Grazie Aureliana!

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    1. L’insegnante che scrive è fatta della sua stessa pasta, cara Antonella, un misto di amore per il proprio lavoro, di competenza, di devozione alla causa dei bambini. Un caro saluto

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  2. Caro Domenico, grazie di questa condivisione. Condivido appieno le riflessioni della collega. Già, anch’io insegno alla Scuola dell’Infanzia, anche se dovrei aggiungere che lì “imparo” giorno per giorno. Le conquiste dei bambini sono pure le mie, la loro profondità mi arricchisce, i loro bisogni mi spingono ad osservare e agire pedagogicamente con creatività e consapevolezza. E dire vhe avrei potuto insegnare in altro ordine di scuola. Rifarei ancora la scelta che feci oltre trent’anni fa. Segmento fondamentale per raccogliere bellezza, seminare amore per il sapere, vivere naturalmente l’inclusione, sentire che facciamo parte della natura e che da essa impariamo. Dalle mie parti tempo fa si indicava la scuola dell’infanzia come “scola vascia”, accezione non troppo esaltante perché “l’essere basso” era inteso come “poco importante”. Io l’ho voluto guardare da un altro punto di osservazione : basso, fondamenta, base su cui si costruisce. Grazie alla collega delle belle riflessioni, evviva gli sguardi veri.
    Cordialmente
    Antonella Alia

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    1. “Scuola bassa” non l’avevo mai sentito, ma questa nota spaziale racconta quanto, a mano a mano che si procede verso l’infanzia, sembra calare anche il giudizio di valore sulla persona, fino a negare al bambino il diritto di avere un pensiero proprio, o di avere qualcosa da dire, quindi non lo si ascolta. Lei, al contrario, sostiene di imparare tutti i giorni dai bambini, lei che è sul campo, quindi occupa una postazione privilegiata, ravvicinata. Credo sia questo il punto, cara Antonella, coi bambini bisogna stare altrimenti si tira a indovinare o si racconta una storia, quella degli adulti. Un caro saluto e grazie per le sue parole

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