Le vere pasque, religiose e laiche, rappresentano la celebrazione del prossimo

Parlavo in un carcere di massima sicurezza ai detenuti, ma ero arrivato tardi, non per colpa mia. Chi doveva venirmi a prendere in albergo aveva avuto informazioni sbagliate.

Non avevo fatto neppure in tempo a iniziare che un folto gruppo di persone si erano alzate lasciando la sala. “Ci scusi, oggi è venerdì dobbiamo pregare insieme nella cella adibita a moschea, eravamo tornati ad ascoltarla perché la volta scorsa ci siamo sentiti in sintonia con lei, ma non possiamo fare tardi al nostro raduno”. Dopo una decina di minuti erano tornati. “Ci siamo parlati e abbiamo deciso insieme di rinviare la preghiera, quella possiamo recuperarla ma questo incontro lo perderemmo definitivamente”.

Sono passati una ventina di anni e il ricordo di quella giornata viene a visitarmi spesso, è stata una bella lezione, difficile da dimenticare. Avevo trovato quella “duttilità” sorprendente, apprezzandola oltre ogni limite, eppure dovrebbe essere connaturata in tutte le religioni, in fondo c’è quell’ama il prossimo tuo come te stesso che viene prima dei riti. Ci si poteva limitare ad “ama il prossimo tuo”, ma è generico, lascia spazio a valutazioni soggettive e aggiustamenti al ribasso. Invece Gesù mette un chiavistello, come te stesso, e non lascia margini di manovra.

È evidente che il Risorto non è interessato a una generica empatia, mira ad altro, punta alla compassione, che non è solo percezione della sofferenza altrui, ma include l’obbligo di alleviarla. Quindi non poteva restare nel vago, perché dove non sono indicati i confini ognuno si regola come crede, magari limitandosi a gesti simbolici che non leniscono.

Chiara, a questo punto, la necessità di domandarci fino a dove spingere la compassione. Non può che essere massima e quanto più possibile estesa, inglobando anche la vita non umana.

Nel mio ultimo libro, “Individualisti si cresce”, avevo apposto una dedica a un ringraziamento. Ecco la dedica. “Al cedro del Libano della mia strada e a tutta la vita, per lo più piccola, che l’abitava. Sentinella maestosa e buona, c’era da prima che arrivassi con la mia famiglia. 

Ora non saremo più gli stessi, perché l’ambiente è il nostro scultore, anche lui lo era”.

Ecco il ringraziamento. “Ai migranti, a tutti i migranti, api audaci e instancabili, che da decine di migliaia di anni mischiano pollini alieni e rammendano i continenti, fermandone la deriva, salvando chi li abita dalla solitudine e dall’illusione che il mondo sia come si vede dalle loro anguste finestre. Grazie, perché proprio il loro incessante movimento, nel bene e nel male, ci porta oltre la mortificazione dell’individualismo, regalandoci la possibilità di sentirci parte di una specie che si sarebbe estinta se ognuno fosse rimasto a immobile in contemplazione del proprio esclusivo interesse, senza mai considerare quello dei vicini e dei lontani”. 

Come potete immaginare, la psicologia non può parlare dell’esistenza di Dio né del modo in cui egli cerca gli uomini.  Questo è un compito che spetta alle religioni, quello della mia disciplina è più modesto, occuparsi del comportamento degli esseri umani.

Su questo terreno specifico, però, ama il prossimo tuo, la psicologia e la religione cristiana si sono avvicinate molto. È accaduto con Alfred Adler, arrivato a definire il sentimento sociale barometro della normalità. Parla di vero interesse verso i propri simili.

Quando manca tale interesse la persona si ammala e la comunità degrada. “Nessuno psicologo è capace di determinare il significato di alcuna esperienza, se non prende in considerazione il suo rapporto con la società”. Così Alfred Adler in un articolo uscito postumo.

In altre parole, una persona sana è colei che sta bene con i propri simili e prova un sincero interesse per essi, quando si ammala è perché è venuta meno questa propensione, è perché il suo destino sociale, compromesso, va ripristinato

Il concetto di prossimo è responsabile della frattura tra Sigmund Freud e Alfred Adler. Il primo vedeva la persona perennemente in lotta con i propri istinti. Il secondo alle prese con i propri simili e desumeva il grado salute mentale dalla qualità rapporti con essi.

Qui la Pasqua religiosa e quella, laica, della psicologia coincidono perfettamente.

Li unisce il primato dell’altro  

4 pensieri riguardo “Le vere pasque, religiose e laiche, rappresentano la celebrazione del prossimo

  1. Grazie per questa riflessione pasquale assai potente. Che vale per credenti e non credenti, Pasqua significa passaggio, e allora, che si creda o non si creda l’augurio è di passare da una dimensione incentrata solo su noi stessi ad una orientata al prossimo. Per sentire nella nostra carne ciò che prova chi è altro da noi, immedesimarsi e spendersi per migliorarne l’esistenza. Ne abbiamo immensamente bisogno in questo momento di buio così diffuso e così profondo.

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    1. Il punto, caro Gianni, è che l’altro diventa sempre più una bella astrazione, ed è persino avvilente che ci si debba impegnare per fare memoria del nostro destino sociale, della vocazione alla fratellanza evocata dalla religione più vicina a noi ma disattesa ogni giorno nei fatti, soprattutto da coloro che dicono di esserne parte.
      Si, la Pasqua è un passaggio, si tratta di capire verso che cosa. Aprire il Mar Rosso è una una grande impresa, un’operazione suggestiva e scenografica, ma bisognerebbe sapere cosa c’è dall’altra parte, se è la parte giusta, solo allora potremo dire se ne valeva la pena. Grazie di cuore

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  2. La scena dei detenuti che scelgono di rimandare la preghiera per ascoltare chi sentono vicino racconta in modo silenzioso ma potente che la sacralità può essere più presente nei gesti, che nei riti.
    E forse la psicologia e la “riflessione religiosa” possono essere parte di una narrazione sull’animo umano.
    Una buona Pasqua, laica e religiosa, caro Dottore.
    Un abbraccio

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    1. Il portavoce di quel gruppo, piuttosto nutrito, era un uomo piccolo, pacato, gentile. Ricordo che indossava una giacca grigio scuro, sgualcita ma dignitosa. Mentre lui spiegava le sue ragioni e quelle dei suoi correligionari, tutti gli altri lo ascoltavano con molto rispetto e io mi chiedevo se c’è un paradosso più tragico delle divisioni religiose. Non credo esista, caro Mattia.
      Quella giornata è scolpita dentro di me e mi rimanda la certezza che se riuscissimo a ricordare che i nostri fratelli di umanità possiedono i nostri stessi sensori e i nostri stessi bisogni, a prescindere dal loro credo, depureremmo il mondo da tanta violenza, caro Mattia, ma sembra che non succederà presto, forse neppure tardi, ma questo non ci esime dallo sforzo di tenere vive le ragioni di tale utopia.
      Un abbraccio anche a te e ai tuoi cari

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