La vita non è nulla se non può diventare un esercizio di libertà piena, un cammino verso obiettivi consapevoli e inconsapevoli che, come calamite potenti, l’attraggono, motivandola e conferendole senso. La nostra psiche si nutre solo in parte di cause collocate nel passato. Siamo creature mobili, non dei sassi che possono rimanere nella stessa posizione per millenni, loro sono privi di intenzionalità e la loro staticità non gli pesa. Per noi, invece, che siamo nati per procedere, per seguire sogni e progetti, la paralisi del corpo è una vera tragedia esistenziale.
Laura Santi, la giornalista umbra che si è appena data la morte attraverso il suicidio assistito, aveva la testa e il cuore della creatura mobile, ma il corpo non assecondava più quella messe di proiezioni verso il domani, un corpo la cui vitalità procedeva sempre più verso la condizione del sasso, verso l’immobilità assoluta, martellato da una sofferenza incessante, crudele e irrimediabile.
Mi chiedo quale possa essere in queste condizioni il modo migliore per onorare la vita, soprattutto quando non la si può interpretare secondo la vocazione finalistica, progettuale. Ma qui entrano in gioco fattori individuali, che esigono rispetto assoluto, ecco perché gli uomini -legislatori e religiosi sopra tutti- dovrebbero rispettare in modo sacrale i deliberati delle persone colpite da qualche incidente definitivo.
Non parlo, infatti, di chi si sveglia la mattina e decide, senza alcuna ragione, che lo Stato deve aiutarlo a morire, questa si che sarebbe barbarie, ma solo uno sciocco può evocare scenari così puerili, perché tale è chi cerca solo consenso, rovistando nella paura della morte e nei suoi insondabili misteri. Mi riferisco, invece, a chi chiede -a ragione- di essere liberato per sempre dallo strazio e dall’insensatezza, a chi non potrà mai avere una seconda possibilità avendo perduto per sempre la prima e ora annega in una sofferenza perenne e disumana, in un tempo “ristagnante” dove si è smarrito il prima mentre il dopo semplicemente non esiste più. Per questo è bene essere chiari su un punto decisivo, decidere tocca solo a chi è direttamente coinvolto, nessuno può sostituirlo, e la sua scelta, quella si, è sacra.
Bisogna mischiarsi per capire, le opinioni a distanza contano assai poco. Mi verrebbe da dire che lo sapeva bene anche la divinità, anch’essa da lontano non si raccapezzava, perdendo la sintonia fine. Incarnarsi, posto che ciò possa essere avvenuto davvero, era l’unico modo per farsi un’idea di prima mano sugli uomini, sulle loro azioni, sui loro tormenti, sul loro modo di “stare” qui.
Se pretendiamo di parlare della morte degli altri con il necessario rispetto e con qualche grammo di consapevolezza in più, così deve essere. Altre vie non si danno. Lo sappia chi cerca di deliberare ideologicamente, lo sappiano anche gli ispiratori religiosi, perché non vi è nulla di più disumano che giocare sul confine della vita, accanendosi sadicamente contro creature disperate e indifese, mentre si transige su genocidi mostruosi ma protetti da equilibri e convenienze inconfessabili.
La riflessione completa è nel link che trovate di seguito
https://tg24.sky.it/cronaca/2025/07/24/laura-santi-suicidio-assistito
Condivido le tue riflessioni.
La dignità di una persona va rispettata. Aggiungo che non c’è più dignità, stima di se stesso se manca l’autonomia in ogni gesto vitale, come mangiare e bere, lavarsi, espletare i bisogni fisiologici.
Diventa una tortura per chi ha piena lucidità, come lo è stato per Laura Santi.
Diventa accanimento per chi non può neppure parlare. Anzi si diventa come dei sassi. E non è giusto.
Grazie per queste riflessioni
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Grazie a te, caro Alfonso, credo sia superfluo manifestarti, a mia volta, una condivisione totale. Sono indignato per quella politica che deporta, respinge, disprezza ma poi, per mantenere il potere, ingaggia maratone infinite se c’è in gioco, non la vita ma bacini di voti.
Duole dirlo, ma vi sono responsabilità insospettabili in tutto questo, interessate a ribadire che la vita possiede un titolare che non è la persona. Io sono chiamato a rispettare la vita dell’altro e devo proteggere la mia, ma quest’ultima, affinché io la salvaguardi, deve avere i connotati che tu elenchi, altrimenti mi si deve riconoscere la libertà di fermarla. A tutti i difensori della vita in astratto, chiedo di assumere a turno, anche per un solo giorno, quella condizione estrema che pensano di conoscere, soprattutto ai maschi, capaci di fare la rivoluzione perché sono afflitti da un mal di testa o da un raffreddore. Un abbraccio
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Potente la sua riflessione e potente il lascito della giornalista Laura Santi.
Che non ci insegna a morire con dignità, ma a vivere con dignità, con pienezza, inseguendo e perseguendo obiettivi, valori, progetti.
Ha ragione, fanno pena e rabbia quei politici che vorrebbero limitare e vietare questo “arbitrio”, in nome della “morte naturale”, come se fosse invece “morte naturale” quella dei bambini a Gaza, per le bombe o per la fame, contro la quale non muovono un dito e non preferiscono parola. Un doppiopesismo immorale. Grazie.
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Proprio Laura Santi, in questa fiera della mediocrità, in questo squallido mortorio popolato da incompetenti, è l’unico segnale di ottimismo, l’unico possibile esempio da seguire. L’unica a sembrare viva, anzi a essere viva. Il modo in cui è uscita di scena, senza uscirne, le parole sagge e lucide, rappresentano un appiglio su cui costruire qualcosa che serva a questo paese.
Un caro saluto e grazie per le sue parole
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Dell’ultimo periodo di vita di Giuli, mia cognata, alla quale io ero molto legata, ricordo come la malattia, lentamente ma inesorabilmente le aveva tolto tutto.
I figli, i fratelli e noi cognate, non abbiamo mai smesso di donarle cure, amore e assistenza.
La sua casa era stata predisposta ad agevolare le esigenze di una persona ormai molto malata e dipendente per tutto e da tutti.
Il giorno prima che morisse, io e lei restammo per qualche minuto da sole.
Sembrava che il suo corpo, ormai stremato dal dolore e dalla morfina, chiedesse solo di potersi congedare.
Eppure qualcosa glielo impediva.
Le strinsi la sua mano, lei mi guardava senza poter parlare.
Era come se mi volesse dire: …” vorrei ma non posso”
Le dissi : “se vuoi andare, vai, non devi rimanere per i tuoi figli e per tutti noi, sentiti libera e serena”
Il giorno dopo morì.
Egoisticamente avrei voluto trattenerla all’infinito, ma quando si vuole davvero bene, bisogna anche lasciare andare.
Quello era l’unico modo per porre fine alle sue sofferenze.
Nessuno, neppure noi che tanto l’amavamo, avremmo avuto il diritto di impedirle di scegliere.
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La sua bellissima riflessione mi fa venire in mente, soprattutto, che la vita appartiene alla persona che ne è investita e solo ad essa appartiene il diritto di decidere, certo non a capriccio, ma secondo linee e giudizi che solo chi è coinvolto in modo diretto in questi drammi esistenziali estremi può avere chiari, perché i limiti a cui è soggetto sono stampati sulla sua pelle.
Oggi mi ha scritto privatamente una donna, un medico oncologo che la morte la vede tutti i giorni. Credo dedicherò un apposito articolo alle sue parole, una lettera che arriva direttamente dalla prima linea, dove non c’è spazio per l’astrazione, ma esiste solo la soggettività di ogni individuo posto davanti a strade senza ritorno, al salto più impegnantivo che fece tremare i polsi allo stesso Gesù, che implorò suo padre affinché lo salvasse dal supplizio e dal terrore che aleggiava nel suo cuore. Un caro saluto e grazie
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