Una vicenda da cui c’è molto da imparare

Un lettore scrive, in un commento che potete leggere, di un collega, piuttosto attivo sui social, incappato in un incidente mediatico, avendo recensito favorevolmente il libro di una influencer con cui diversi lettori pare abbiano dei conti aperti. Non la conosco ma credo da sempre che quello degli influencer sia un fenomeno sul quale sarebbe meglio accendere una riflessione seria, non perché siano frutti avvelenati, ma per il potere di persuasione che mostrano di avere sulle giovani generazioni, un potere accolto acriticamente da tutta la società.

Personalmente non frequento i social, niente profili, da sempre. Anche questo blog si legge solo su internet, infatti siamo fermi a seicento iscritti. Nessuna spocchia, per carità, semplicemente penso facciano male e che la virtualizzazione della realtà abbia spostato verso il basso molti parametri che compongono la sfera dell’umanità.

Questo mio rifiuto implica molti svantaggi sul piano pratico, sia professionale che editoriale. I miei libri potevano fare molto meglio, cosa che senza dubbio avrebbe giovato alle mie finanze. Persino i contratti di collaborazione giornalistici spesso sono distribuiti usando come movente il numero dei cosiddetti follower che porta in dote il professionista. Un metodo molto pericoloso, ma vitale per i giornali, perché per loro significa più contatti e dunque più entrate pubblicitarie. Comprensibile ma ingiusto, perché solo di rado rispecchia il vero quadro delle competenze.

Temo però non sia possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca, se ti dichiari contrario all’uso smodato dei social e, soprattutto, se di questa diffidenza fai un cavallo di battaglia tra gli educatori e, attraverso di essi, tra i figli, non devi stare sui social con quella frequenza che tutti notano, altrimenti confondi proprio quei ragazzini che dici di volere aiutare.

L’educazione è un’azione testimoniale, una rappresentazione in cui il messaggio è il tuo comportamento, le parole, anche quando le usiamo bene, servono a poco, anzi spesso a niente.

L’altra sera, un noto giornalista aveva preso in castagna un altro collega presenzialista e dalla proverbiale autostima, facendolo arrossire. È la stessa persona che riesce a infilare il termine “narcisismo” pure nell’insalata, facendone notare spesso e volentieri le conseguenze negative, ma l’effetto è grottesco perché lui sembra incarnarne, più del dipinto di Caravaggio, la quintessenza.  

Insomma, non entro nel merito di queste dispute, ma mi viene in mente un episodio della mia infanzia, quando gli stessi adulti che noi monelli spioni vedevamo uscire dalle case di tolleranza con ancora i pantaloni slacciati, ci ammonivano che quella era una “cosa brutta, da non fare mai”.

Ecco, non mi risulta che il messaggio abbia fatto breccia tra i ragazzi della compagnia, proprio perché separava le parole dall’azione.

Se vogliamo dichiarare tossico l’uso frequente dei social, dobbiamo moderarne l’uso o sospenderlo. Certo, venderemmo meno libri e riceveremmo meno inviti, ma faremmo davvero gli educatori e diventeremmo più credibili, ma, e questo non sarebbe male, i professionisti giocherebbero tutti ad armi pari e, finalmente, si proporrebbe della sostanza senza l’aiuto della forma.

Lo stesso discorso può essere applicato al narcisismo, se desideriamo così tanto che lasci il posto a contegni prosociali e meno infantili, è meglio prima sgomberare i nostri armadi.

Insomma, a nessuno fa schifo piacersi, ma il famoso bicchiere a tavola non deve trasformarsi in una damigiana altrimenti diventiamo, e sforniamo, alcolisti.

4 pensieri riguardo “Una vicenda da cui c’è molto da imparare

  1. Nemmeno io sapevo chi fosse la signora della quale il suo collega ha – ben – recensito un libro. E sono andato a vedere. Che dire. Comprendo lo sconcerto dei lettori del suo collega e la delusione e i rimbrotti che da giorni compaiono sulle di lui pagine social. È come dice lei, dottore. Una questione di botti piene e mogli ubriache, impossibile avere entrambe, a meno di essere ipocriti. E anche piuttosto venali.
    Ciò detto, condivido che i comportamenti contano molto più delle parole. Provo a prefigurarmi il caso che lei recensisse un libro di questa a me fino a ieri sconosciuta Julia Elle e, sono sincero, la delusione sarebbe cocente. Mi sentirei tradito e preso in giro. Non so se continuerei a leggerla.
    Ciò detto, so che non accadrà e so anche che alla virtualità lei sostituisce la più faticosa presenza tridimensionale, non è un caso che, da sua agenda pubblica resa nota proprio qui, anche oggi lei sia in giro per lo Stivale a parlare di educazione.
    Grazie, di cuore, e buona domenica.

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    1. Caro Gianni, quello di cui parliamo è un piccolo caso, ma potrebbe finalmente innescare una sana riflessione su un tema che i professionisti trattano con scarsa coerenza. Se un bambino ti vede fumare, lui riterrà lecito farlo. Da questa regola non si scappa.
      Un caro saluto e grazie per le sue parole

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  2. Ho da poco cancellato il mio account su Linkedin, l’unico social al quale mi ero iscritto in passato anche per motivi di lavoro dopo che un sedicente avvocato “argentino”, residente peraltro in Italia, aveva minacciato di querelerarmi e segnalarmi alla Polizia postale
    Il motivo è che avevo suggerito a questo signore, che aveva ripetutamente insultato il nostro Paese, di tornarsene nel suo c….zzo di Nazione, se proprio non gradiva rimanere qui
    Devo dire che non frequentare il social in questione é stata una liberazione
    Ciao Domenico

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    1. Caro Guido, sto per iniziare un confronto a Roma, con circa 400 genitori, il tema sicuramente si paleserà nel dibattito, perchè si tratta di una reale emergenza.
      Se vogliamo liberare i nostri figli dalla prigione della virtualità dobbiamo iniziare proprio da noi, come hai fatto tu. Ciao

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