Nei giorni scorsi mi trovavo in Calabria per una serie di interventi pubblici. Al termine di uno di questi si è avvicinata una giovane madre: “Vorrei ringraziarla, perché durante la sua esposizione credo di avere capito la ragione per la quale sto rovinando il rapporto col mio bambino di 5 anni”.
La platea delle conferenze di psicologia divulgativa è composta per lo più da persone così, interessate a individuare, nelle parole del relatore, qualcosa di utile per la propria vita. Possibilmente senza annoiarsi.
Quando parlo di “responsabilità sociale della psicologia” mi riferisco alla necessità di non tradire tali attese, considerando, in aggiunta, che trovarsi di fronte persone disposte ad ascoltarci, spesso dopo una giornata di lavoro, è un privilegio cui rispondere con pazienza e competenza, abbandonando parole arcane e sfoggio di sapere, che non significano affatto conoscenza né tantomeno profondità, semmai evocano una superbia intellettuale incompatibile con l’esercizio della psicologia.
Ancora più utile sarebbe evitare il rimando ossessivo a una psiche a luci rosse, operazione scaltra, fondata su un grimaldello datato, espediente degli albori, quando la nascente psicologia del profondo sdoganava una sessualità schiacciata dalla pesante cappa della cultura vittoriana, per la quale si poteva fare ma era sconsigliato dire.
La psicoanalisi trasgredì, cominciò a “dire”, pubblicamente, e fece la sua fortuna.
Erano tempi di grandi spallate, Vienna era pervasa di fermenti senza precedenti e il mondo della psiche non voleva essere da meno, anche a costo di attaccarsi al buco della serratura, tuttavia, ai più sarebbe diventato presto chiaro che quello era solo uno scorcio, e non esauriva il paesaggio ineffabile della vita interiore.
La genesi sessuale della nevrosi oggi fa tenerezza, quasi come il grammofono, eppure taluni non rinunciano a giocarsi sfacciatamente la carta, sicura e telegenica, dell’erotismo, apparecchiando una furbesca azione di marketing, lucrosa sul piano personale ma catastrofica per l’identità della psicologia, intrappolata tra astrazioni e ragionamenti autocompiacenti, ai limiti del caricaturale.
Una psicologia antipatica, da cenacolo di iniziati, messa in ginocchio, privata della sua natura familiare, amichevole, e dunque allontanata da quella madre con cui abbiamo aperto questo post, fino a rendere estranei i due soggetti, che invece avrebbero tante cose importanti da dirsi.
Le sue parole mi evocano un personaggio famoso. Quando lo penso vedo la caricatura di Crozza che, attraverso la sua ironia, ci porta a riflettere sugli stessi argomenti da lei analizzati. Col siparietto di Crozza rido molto, ma poi mi rattristo al pensiero di quanta inutilità in certi personaggi. Soprattutto mi domando come possa essere utile all’umanità sofferente, un tale abuso della psicologia.
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Purtroppo, cara Antonella, talvolta la psicologia somiglia alla teologia, a fronte di un messaggio crudo ed essenziale,
costruisce edifici vertiginosi, a disposizione di una piccola platea di iniziati o di individui che cercano una seconda possibilità nell’arcano. Il tema è vecchio, ma da una generazione all’altra trova sempre interpreti agguerriti, e forse non è neppure colpa loro. Forse colmano un vuoto, rispondono a una paura.
L’essenziale, troppo diretto, ci costringe a guardare nei cassetti giusti e questo non piace a tutti, perché può essere scomodo.
il messaggio di Alfred Adler, una psicologia al servizio di tutti, unita a contenuti di grande acume e umanità, talvolta geniali, sempre vicinissimi all’assenza della persona, già un oltre un secolo fa aveva cercato di mettere una zeppa in certi ingranaggi fantasmagorici. Evidentemente un secolo non basta, occorre più pazienza e impegno.
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Parole che fanno molto riflettere le sue, perché la sua “psicologia di servizio” non ha nulla a che vedere con la “pseudo psicologia” spacciata da queste caricature.
Intanto costoro si nutrono di paroloni, un pò come il “latinorum” di manzoniana memoria, per darsi arie, fingere di saperla lunga, marcare una distanza dal “popolino” di noi profani, che secondo loro dovremmo berci quelle verità rivelate. La stessa scelta di una meese esistenzialista per darsi un tono lo conferma.
Poi, appunto, vien buona qualche allusione alla sessualità, che fa tanto Freud & C., e fa sempre un pò audience, proprio come le scene hard che diventano un must per incrementare il gradimento di un film. E allora eccoli speculare su queste prurigini, per trafficare qualche like in più, qualche articolo sui quotidiani, che come gli almanacchi prendono ormai tutto e il contrario di tutto, e qualche comparsata televisiva, dove pure l’allusione sessuale alza lo share a qualsiasi ora.
Il loro criterio ed il loro obiettivo è la convenienza personale, null’altro.
Dei piazzisti e dei farabutti ad empatia zero, dottore, dei ciarlatani a cui delle persone, come la madre che si è a lei rivolta a fine conferenza, frega meno di nulla.
Fa bene a smascherarli e lei ha l’autorevolezza per farlo!
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Grazie Gianni, la madre che lei richiama, la vera protagonista del post, ci ricorda che ogni giorno lasciamo inevase migliaia di domandei, inadempienze che peseranno nella vita di tante persone e dell’intera comunità. Chi fa il mio lavoro, incluso il sottoscritto e compresi coloro che lei giustamente stigmatizza, dovrebbero domandarsi se non abbiamo qualche responsabilità rispetto al malessere che investe anche la comunità allargata, che in fondo è composta da tante mamme come quella donna, lasciate, appunto, senza risposte o trattate come alunni delle scuole di filosofia dell’antica Grecia. Buona serata
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Buongiorno dottore,
Trovo la sua riflessione molto importante in quanto denuncia una pratica della psicologia da parte di certi specialisti (o definiti tali) che sfruttano tale disciplina per gli scopi che suggerisce, e al tempo stesso evidenzia un altro problema secondo me non meno grave: la semplificazione della psicologia stessa.
Cerco di elaborare meglio questa affermazione. Nel corso degli anni ho maturato la convinzione che la psicologia, così come un gran numero di altre discipline o attività umane anche meno intellettuali, siano divenute oggetto di speculazioni superficiali tanto da poter essere date in pasto alla presunzione di un pubblico arrogante desideroso di adornarsi con un’aura di sapere per poi rivenderlo come proprio.
Quante volte infatti ho avuto l’impressione che certe persone fossero subito e in ogni momento pronte a sputare sentenze riguardo alla salute mentale o alle ragioni psicologiche di certi atteggiamenti o comportamenti, sia miei sia di altre persone.
Questo comportamento è sì giustificabile da una fisiologica superficialità e arroganza compiuta da tali “giudici frettolosi”, ma a mio parere una parte di responsabilità proviene anche da certi professionisti che ci vendono una psicologia “sexy” e immediata, televisiva, padroneggiabile da chiunque anche con nessuna esperienza. Una psicologia “wiki-how” che è figlia del progressivo deterioramento del sapere dell’era digitale, dove tutti sono esperti di tutto solo perché hanno la possibilità di avere tutto il sapere a portata di click.
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Caro Dario, la ringrazio per il contributo, che apre un altro versante molto attuale, quello della psicologizzazione eccessiva della nostra vita e, dunque, del conseguente rischio di banalizzazione. La psicologia, una disciplina che non possiede uno status scientifico particolarmente solido, non è la chimica, si presta in modo speciale a questo tipo di deriva, soprattutto quando viene trafficata attraverso gli strumenti digitali. Il fatto, però, che possa influenzarci così tanto, anche quando i pareri vengono da fonti non professionali, dovrebbe però farci riflettere sulla nostra capacità di separare l’origine dei giudizi. La psicologia non è infallibile, tuttavia a mano a mano che si allontana dalle cose che nei decenni di storia può avere imparato, attraverso i contributi dei suoi esponenti, i rischi di cui parla lei aumentano.
Un fenomeno analogo lo stiamo vivendo con i tanti virologi improvvisati che spuntano come funghi. Evidentemente le persone sentono il bisogno di una zona franca, tra la crudezza dei pareri troppo qualificati e il niente. Questo, unito al desiderio di molti di svolgere un “secondo lavoro”, crea quegli effetti di cui giustamente lei si lamenta.
Il ruolo di amplificatore, in questo e il altri ambiti, dell’ambiente digitale, direi che fa il resto.
Rimane il fatto che l’antidoto rimane la capacità di non subire mai, neppure la scienze, e crearsi un basamento di spirito critico. Vale per tutto, a patto però che lo spirito critico non diventi diffidenza sistematica.
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come dice Enrico Bucci “In Italia serve una nuova sinergia tra scienze dure e materie umanistiche”: coltivando lo spirito critico – che è una delle anime della scienza – e dando pari dignità ai due saperi [solo apparentemente diversi e lontani (vedi Leopardi e Dante)] la scienza potrà venire capita e gradita, e non subita. E ciò aiuterà a difenderci da chi ci vuole intortare, e magari aiuterà per primi noi stessi a non desiderare di essere intortati – e poi magari intortare a nostra volta …
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Era anche il sogno di Gramsci pedagogista, che invocava una formazione non frammentata, dove materie tecniche e umanistiche trovassero una conciliazione e fornissero un’istruzione di base uguale per tutti.
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