Cosa c’entra la scuola italiana col delitto di Boscoreale.

Per capire il Paese e la scuola, bisogna abbandonare le postazioni fisse e “stare”.
Solo così, quando accade qualcosa che sembra sfuggire all’ordinario, si può pescare nella memoria e decidere se quell’accadimento è davvero insolito.

I territori, le comunità, i luoghi, le persone, parlano anche quando sono silenti.
Nei giorni di Natale, il proprietario di una pescheria a Boscoreale è stato brutalmente ucciso da un rapinatore. Devo essere passato davanti al suo negozio, tre o quattro anni fa, mentre mi recavo in una scuola dove, chissà, magari avevano studiato sia la vittima che l’assassino.

Boscoreale è un luogo difficile da definire gradevole, l’area dove si trova il plesso è coerente col resto. Mi ricorda la baraccopoli nella quale sono cresciuto.
Chiedo al mio accompagnatore “come possiamo pretendere che un bambino ospite di questo edificio scolastico, possa amare lo Stato, possa provare interesse a rendere migliore la sua città e la stessa Italia”.

In quell’istante preciso squilla il mio telefono. Un’azienda milanese, proprio mentre parlo di bruttezza con Andrea, mi chiede di tenere due seminari sulla bellezza, ai suoi dipendenti. Un beffardo contrappasso. Sento dentro di me la contraddizione di una comunità nazionale lacerata, l’insopportabile differenza di trattamento tra figli dello stesso Paese, che potrebbe prolungarsi nei destini dei singoli e dei gruppi.

Poi entro a scuola, brutta quanto le parti esterne, ma capisco che la polpa è diversa dal guscio. Il mio seminario si svolge in una stanza piccola, dove sono ammassati un centinaio di insegnanti, attentissimi, alla fine si chiacchiera amabilmente, sono molto interessati a capire meglio i loro alunni. La preside mi ospita nel suo ufficio, in attesa di un rinfresco che mi offriranno, mi sorprende pure quello, preparato da gourmet grazie a una delle insegnanti.
Le persone che abitano quella scuola cercano di porre rimedio alle distrazioni di chi non riesce a capire l’impossibilità di separare il brutale omicidio dell’incolpevole negoziante dall’aspetto di quell’edificio, che parla, come tutto il resto.

Gli edifici scolastici del nostro paese non sempre sono migliori di quello da cui sono uscito quella volta, a Boscoreale, e sarà sempre peggio, anche perché nessuno si rende conto che i bambini e i ragazzi restituiscono ciò che ricevono, un edificio brutto e insicuro, suona per loro come un giudizio, la sintesi di ciò che pensa di loro il potere.

Nessuno confinerebbe una persona che stima e ama in certi luoghi cadenti e inospitali. Coi bambini e i ragazzi, quando sono studenti, a molti sembra naturale farlo.

La bruttezza, poi, diventa istigazione per quegli insegnanti che già di loro vivono il proprio lavoro con pigrizia, si attaccano a ogni pretesto per defezionare, e si domandano perché mai dovrebbero comportarsi meglio dei proprietari degli edifici scolastici, quasi sempre enti locali, un potere prossimo, non quello del governo nazionale, che potrebbe apparire astratto e lontano.
Dunque, neppure l’alibi della distanza.

I temi più forti della comunità, inclusi legalità, responsabilità e senso civico, passano in modo implicito, anche quando non ci sono insegnamenti specifici, dalla scuola, tutti i giorni.
Una scuola inospitale, non solo per i muri, rende l’intera società inospitale, c’è una trasmissione quasi diretta. Se la scuola non diventa il capitolo uno, anzi la premessa, dell’agenda nazionale, il Paese crollerà, magari non domani mattina, ma crollerà, intanto continueremo a consolarci pensando che tra l’imprenditore ucciso, il suo carnefice e la scuola non possono esservi nessi. Ma sappiamo che non è vero.

11 pensieri riguardo “Cosa c’entra la scuola italiana col delitto di Boscoreale.

  1. Gentile dottore condivido il suo sguardo sulla scuola. Ma mi permetto di pensare che se il “guscio” trasmette valori, la “polpa” quei valori può incarnarli o, al contrario, disattenderli completamente. L’ operazione è difficile, ma possibile. Esempi di grandi “maestri” che hanno operato al limite della società sono noti e hanno prodotto risultati che fanno storia. Talvolta il bisogno aguzza l’ingegno. Ciò detto, convengo con lei che una società matura sa curare la scuola nei suoi edifici e nella sua intima missione: plasmare il futuro della società.

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    1. Lui coglie perfettamente l’apologo contenuto nel post. La precairetà degli edifici scolastici sovente è una ferità alla credibilità delle istituzioni ma chi insegna non può trarne alibi. La scuola che frequetavo da bambino era annegata in un misero slum, questo non ha impedito al mio maestro, cui ho dedicato con affetto e gratitudine uno dei mio libri, di prendersi cura di 30 scalmanati e contribuire a farne dei cittadini. Resta il fatto, cara Laura, che la scuola, su cui torneremo spesso, rimane la misura di tutto. Tenere vivo questa premessa è un dovere per tutti.

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  2. L’Istituto Professionale per l’Agricoltura in cui insegnavo anni fa fu trasferito da due modestissime sedi ad uno splendido ex convento del ‘500.
    Il Direttore insistette che la scuola era appena stata restaurata, l’arredo era nuovo, che erano fortunati e avrebbero dovuto prendersene cura.
    La perfezione non è di questo mondo ma le assicuro che capirono: quelle splendide aule coi soffiti a capriata o a volta, i cortili ed i giardini, e la vista su una meravigliosa basilica rinascimentale erano lì per loro e loro li hanno rispettati.
    Hanno piantato un giardino.di erbe aromatiche e una serra: voleva dire poter lavorare senza dover andare a chilometri di distanza in azienda agricola (ovviamente aspettando la disponibilità del pullmino).
    L’hanno sentita casa loro, una bella casa, finalmente.

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    1. La casa, cara Giulia, è il luogo più caro per molti di noi, ampliare quello spazio, sentendo “casa” anche altri luoghi, significa portare con sé sentimenti e responsabilità che riserviamo alle cose che più amiamo. Una scuola-casa è molto meglio di un luogo anonimo e trascurato, rende più morbido il salto nella vita sociale allargata, tenendo viva la continuità con la famiglia, e in qualche modo costringe a soppesare il proprio comportamento perché ciò che è riconoscibile evoca l’idea di cura. Un effetto circolare che può espandersi, arrivsare lontano.

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      1. Seconda parte: lo splendido edificio del ‘500 era desiderato anche dall’altra scuola in cui avevo lavorato, un Liceo Artistico, pure dislocato in più sedi cadenti. Due scuole paria, nel pregiudizio comune, una perché professionale (quindi per antonomasia per-quelli-non-in-grado-di-fare-meglio) e l’altra perché immaginario luogo in cui i ragazzi fanno-i-disegnini-e-non-studiano.
        Mi lasciò una grande tristezza vedere che nella guerra tra poveri ci fosse un pregiudizio anche interno, in particolare da parte di qualcuno all’Artistico che riteneva uno spreco dare un edificio così bello ad una scuola che non fosse esplicitamente votata all’arte.
        Personalmente ho amato moltissimo entrambe le scuole, ciascuna per ciò che aveva di speciale, ma credo che quell’edificio sia stato la giusta casa per Agraria. L’Artistico ha trovato alla fine una diversa e adatta sede, per fortuna.
        Per evitare una terza puntata le dirò che da poco è stato attivato l’Istituto Tecnico Agrario a fianco del Professionale, e di nuovo il pregiudizio è entrato in gioco: alla scuola “alta” gli spazi migliori, al Professionale i rimasugli.
        Sembra che non ci sia modo di scardinare questa visione verticale della società, una scala in cui ci si arrampica sulle spalle dell’altro e magari per esser sicuri di lasciarlo indietro gli si pestano anche le dita.

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      2. Vorrei sapere cosa succederà quando si rompera un interruttore, un’automobile, un impianto elettrico, una persiana. Forse molti scopriranno che senza gli istituti tecnici (di recente sono stato invitato da uno di questi, a Bergamo, esperienza molto istruttiva per il sottoscritto), che formano gli artefici del paese reale, torneremmo nelle caverne, magari ad ascoltare le litanie dei filosofi che in questi mesi si sono segnalati per un senso della realtà prossimo allo zero.

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  3. Appendice
    Per qualche anno ho seguito l’orientamento in ingresso per i ragazzi della terza media, un bel lavoro.
    La difficoltà maggiore era far capire ai genitori che la bontà o meno di una scuola superiore non era assoluta ma dipendeva dall’aderenza al ragazzo e alle sue inclinazioni, e che il “pezzo di carta” più o meno blasonato di per sé non valeva nulla.
    Insomma, meglio un buon meccanico per amore che un ingegnere a forza, e viceversa.
    Chiudo ricordando un compagno di superiori, figlio e fratello di notai, e per questo obbligato a frequentare un liceo classico di cui non gli importava nulla. Una sofferenza, con contorno di autobus al mattino presto (perché era di un’altra città) e di due esami a settembre ogni anno.
    “Casa” è (o non è) anche questo.

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    1. Il padre di una persona che conoscevo, voleva che il figlio facesse il medico, si da il caso che quest’ultimo avesse un talento cristallino per l’arte e, dopo avere conseguito la maturità presso il liceo artistico della sua città, col massimo dei voti, avrebbe voluto proseguire il percorso iscrivendosi ad architettura, ma la massa critica del genitore ebbe la meglio. Il risultato alla fine arrivò, dopo 17 anni di università, 11 in più di quelli richiesti, nacque un nuovo medico, certo piuttosto infelice, ma pur sempre un medico.

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  4. Condivido pienamente il pensiero del dottor Barrilà, il suo sguardo su come la cura di un ambiente di vita ricada beneficamente sulla cura delle persone che lì vivono, crescono, sognano. Condivido anche il pensiero di Laura, che mi rimanda a insegnanti che possono trasmettere valori nonostante tutto o, al contrario, disattendere tali valori, fornendo pessimi modelli. Come il dottor Barrilà, sono cresciuta in un contesto molto particolare, una baraccopoli di un paese della Valle del Belice stravolto, insieme a tanti altri, dal sisma del 1968. La scuola era ospitata in alcune baracche con classi distribuite in quelle strutture calde d’estate e freddissime d’inverno. Freddo, caldo, amianto. Per 11 anni il mio vissuto fu quello. L’incidenza di alcuni tipi di tumori in quella zona è molto alta ed è facile immaginare il nesso. Tra le pareti di lamiera esterne e le pareti di compensato interne delle baracche c’era fibra d’amianto, il tetto era fatto di pannelli in eternit. Tuttavia sul ricordo degli spazi angusti, delle proteste inattese degli adulti che per noi avrebbero voluto una casa vera, dei giornalisti che arrivavano per enfatizzare le proteste regalando caramelle a noi bambini e scattando fotografie, prevale il ricordo della mia maestra e di tutte le sue proposte creative, in particolare dei libri che ci portava e ci leggeva ad alta voce. Una figura che ci faceva apprezzare il bello cercandolo “minuziosamente” perché era davvero difficile trovarlo in quella realtà. Fece la differenza avere una maestra così! La fece anche il maestro del dottor Barrilà, che nel libro “La casa di Henriette”, viene descritto con affetto e riconoscenza. Non possiamo però basarci sugli “incontri” più o meno fortunati che gli alunni possono fare a scuola… Alcune condizioni possono davvero fare la differenza e prevenire “alibi” se non innescare felicemente stimoli per fare ricerca educativa e didattica. Gli edifici scolastici vanno pensati, adeguati, messi in sicurezza, rinnovati. E ciò evitando anche che lungaggini burocratiche allunghino i tempi, cosa che avviene puntualmente ovunque…Perché intanto i bambini crescono, respirano bellezza o bruttezza, trascuratezza o cura…La polpa è fondamentale, ma anche il guscio ha il suo ruolo e la sua insostituibile valenza.

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    1. Grazie Antonella, sono contento lei metta l’accento sul valore del guscio. Troppo spesso ci dimentichiamo che l’ambiente, anche
      quello fisico, plasma la nostra sensibilità. All’inizio della mia attività professionale, tanti anni fa, collaboravo con un consultorio familiare, c’era un’equipe colma di qualità e di passione, ma il fondale era rappresentato da un ambiente fisico talmente triste, che talvolta mi sorprendevo a domandarmi se quella condizione potrebbe vanificare gli sforzi di chi vi lavorava. Non credo, né credevo allora, a una simile eventualità, ma posso garantirle che quando un cittadino, soprattutto un bambino, viene accolto in un edificio dignitoso o, addirittura, bello, la sua disposizione interiore può migliorare, rendendo migliore le prospettive di ciò che sta facendo.

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