Se vogliamo parlare di disturbi dell’apprendimento dobbiamo tornare a studiare l’età evolutiva

Da diversi anni è piuttosto vivo un dibattito sul tema dei cosiddetti disturbi dell’apprendimento, sovente caratterizzato da posizioni radicali, ideologiche, poco consone a un confronto che pretenda di avere qualche pretesa di scientificità. Senza contare che dietro la questione, in parte reale e di certo delicata, è sorto un mercato fiorente, talvolta alimentato dalla pigrizia e dall’opportunismo, a seconda dei casi, dei vari soggetti in gioco. Famiglia, scuola, operatori, persino gli stessi bambini e ragazzi, ignari che, ad esempio, dietro una scarsa capacità di concentrazione possono esservi dei disagi o dei finalismi che generano o concorrono a esacerbare il problema.

Per questo è meglio provare ad aprire l’orizzonte e riflettere in modo meno parcellizzato.

Tre anni fa partecipavo alla presentazione di un progetto sulla scuola, la piattaforma Webecome, che avevo contribuito a sviluppare. Erano presenti i finanziatori, un colosso bancario italiano, e il patrocinatore, il ministro dell’istruzione.  
Proprio quest’ultimo, intervenuto a chiusura del confronto, si era lasciato andare ad un’affermazione piuttosto drastica: “Sono ministro da nove mesi, oggi per la prima volta sento parlare di bambini, il resto del mio tempo si è consumato in riunioni sindacali”.

In quelle parole, di cui avevo apprezzato la sincerità, è contenuto uno dei ventri molli della scuola italiana, ossia la rinuncia al primato indiscusso dell’alunno, lui privo davvero di garanzie sindacali e abbandonato persino dalla passione degli studiosi, tutelato quasi esclusivamente dalla rettitudine di molti dirigenti e insegnanti di buona volontà, a loro volta lasciati piuttosto soli.

Le teorie dell’età evolutiva di un tempo oggi risultano sfasate, perché l’ingrediente fondamentale nella costruzione dello stile di vita, l’ambiente, è radicalmente mutato nell’arco di un paio di generazioni, rendendo spesso irriconoscibile il minore che abbiamo di fronte. La risposta si è tradotta in un tentativo di leggere il bambino “a pezzi”, senza domandarsi cos’è accaduto davvero nel suo mondo interiore, dal quale bisognerebbe sempre partire per articolare una proposta pedagogica con un senso preciso, realmente personalizzata, all’interno della quale tecniche e strumenti compensatori siano solo una frazione del tutto.  

Ma, dramma nel dramma, a questa vulgata aderiscono, ingenuamente, anche i mezzi di informazione, che nella loro opera divulgativa, meritoria in linea di principio, valorizzano spesso affermazioni prive di una chiara visione dell’età evolutiva e della persona.

Proprio quest’assenza di visione finisce per dare spazio ad una cultura ricca di espedienti, che spesso si risolvono in un tirare a indovinare, improduttivo quando non dannoso.  

Quando scrivo un libro, mi preoccupo sempre di portare qualsiasi parte del bambino, del ragazzo, della persona all’interno di una trama precisa, che ne renda chiaro e prevedibile il comportamento, perché è questa prevedibilità che aiuta gli educatori a intervenire con consapevolezza. Allo stesso modo mi comporto quando lavoro ad un articolo, perché deve sempre sembrare il segmento di un percorso preciso.

Lo stile di vita della persona è una sinfonia dallo sviluppo riconoscibile.

Nei bambini e nei ragazzi, il leit motiv si lascia individuare meglio, perché i loro schermi difensivi sono ancora relativamente abbassati e ci permettono visioni più chiare, a patto però che quella sinfonia si abbia voglia di ascoltarla, rinunciando alla velleità di sovrapporvi il nostro baccano e, soprattutto, la si smetta di considerarli macchine senza anima da riparare con massiccio impiego di tecnica.

12 pensieri riguardo “Se vogliamo parlare di disturbi dell’apprendimento dobbiamo tornare a studiare l’età evolutiva

  1. Caro Domenico, quanto ci sarebbe da parlare di questo argomento anche a partire dai danni fatti in questi due anni di Covid ai più piccoli, che ben poco si sanno osservare se non altro per provare a capire. Credo che tornare a studiare l’età evolutiva significhi di fatto fare un enorme lavoro sull’evoluzione da adulti eroici e schematici, padroni del mondo a genitori e educatori profondamente sensibili alla crescita del bambino nel suo desiderio di trovare una strada semplice ai problemi ma anche all’enorme disponibilità di capire linguaggi ben più complicati dettati non dalla vita stessa ma dal mondo degli adulti, l’unico passato per “buono”. Grazie di questo articolo così importante Un abbraccio e buon anno a tutti voi Emanuela

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    1. Grazie, cara Emanuela, le tue parole non potrebbero essere più chiare, quando leghi lo studio dell’età evolutiva a possibili grandi cambiamenti nel mondo adulto. Aggiungo con forti implicazioni intergenerazionali, poiché i bambini di oggi, educati da genitori consapevoli, restituirebbero la stessa moneta, pregiata, ai loro figli.

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  2. grazie Domenico per avere ricordato un argomento di cui mia moglie ha tante volte parlato, in decenni di insegnamento [e di studio]. Un caro saluto, ed un augurio per tutti, Mauro

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    1. L’argomento, caro Mauro, appartiene all’oggi, sempre di più, perché si tratta di un fenomeno che si autoalimenta ed è molto lontano dal riconoscere un confine. In gioco c’è lo sviluppo della personalità di milioni di cittadini e, dunque, l’assetto delle comunità, come ricordava anche Emanuela nel suo commento.
      Una serie di circostanze contribuiscono a rendere complementari interessi che dovrebbero stare separati. Dobbiamo leggere meglio questo ambito.

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  3. Gentile dottore,
    lei fa cenno ad un “mercato fiorente” e a mio avviso questo tema andrebbe meglio scandagliato.
    Il numero sempre crescente delle “certificazioni” incrementa infatti necessariamente anche l’entità delle prestazioni degli insegnanti di sostegno e degli assistenti ad personam. Non sono un esperto di questo ambito, ma uno spettatore che si pone domande e credo che forse un approfondimento sulle dinamiche di diagnosi e certificazione sarebbe opportuno.

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    1. Grazie Gianni, torneremo presto sull’argomento perché riguarda tutti, anche le casse dello Stato e dei comuni, ma in particolare riguarda le ricadute su bambini, ragazzi e sugli adulti che saranno. Vedremo di farlo senza preconcetti.

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  4. Grazie Domenico.
    Solo oggi, riletto l’articolo e letti i commenti, ho realizzato che cosa mi ronzava in testa dalla prima lettura: quanto può essere insidiosa la parola “speciale”? Certo quanto la parola “normale”, in una società (e in una scuola) che standardizza e riduce a crocette le persone…
    I bravi insegnanti sanno come mettere a coppie o in gruppo gli alunni giusti perche si aiutino a vicenda, senza bisogno di metter su un progetto d’istituto (con l’indispensabile nome inglese: peer-to-peer), o come spiegare lo stesso concetto in modi diversi, in modo che tutti lo capiscano, anche se non esiste un’apposita sezione BES nel libro.
    Fa bene a insistere sulla necessità di vedere in modo non parcellizzato, sia i singoli che i gruppi.
    Aspetto con curiosità i suoi prossimi articoli.

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    1. Certo Giulia, ci saranno dei prossimi articoli, perché vi sono profili che vanno approfonditi, ad esempio il fatto che l’ente certificatore del disturbo, di norma un privato, e quello che eroga la prestazione possano essere lo stesso soggetto, richiede qualche riflessione.

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  5. È davvero un argomento complesso, composto da enormi contraddizioni, in cui la vittima è sempre il bambino. La scuola è soggetta a interessi politici ed economici. Quindi si creano ricadute pesanti sul suo funzionamento, se dall’alto al basso non viene gestita con correttezza. Da docente lo desumo da tanti fatti che sperimento ogni giorno sulla pelle e che mettono a dura prova i miei valori personali e pedagogici. Ogni problema ne chiama un altro a ricaduta continua… Faccio solo qualche esempio personale: dalle certificazioni Dsa fasulle e rilasciate da enti privati, alle certificazioni mancate arrivate solo a fine ciclo primaria dopo che all’infanzia si segnalavano grosse problematiche inascoltate, agli insegnanti di sostegno che arrivano a dicembre e quando arrivano non solo non hanno la specializzazione, ma nemmeno una formazione idonea all’insegnamento. Potrei continuare… Mi fa piacere trovare qui altre persone che condividono i miei pensieri: questo mi fa sentire meno sola nella comunque bellissima esperienza dell’insegnamento, ma sopratutto mi dà la la speranza che facendo circolare idee costruttive si possa promuovere un vero cambiamento. Grazie a tutti

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    1. Cara Antonella, prometto che non molleremo l’argomento. Mi interessa come professionista e come cittadino, sto raccogliendo materiale e intervistando persone che conoscono il problema dall’interno. Uno di loro, che da una posizione sensibile denuncia che la situazione sta letteralmente sfuggendo di mano. Chiedo a lei e ai lettori di sostenere il blog in questo sforzo, fornendo riflessioni, contributi di conoscenza e testimonianze su casi concreti. Proprio per proteggere gli alunni e gli studenti davvero toccati da problemi di apprendimento, è necessario fermare gli eccessi, ove ve ne fossero.
      Grazie di cuore

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  6. Scrivo questo commento mentre sto facendo uno scrutinio online di una quinta liceo. In queste occasioni, come nei consigli di classe o nei collegi docenti, mi domando sempre perché sprechiamo il ns tempo a spuntare caselle, dare numeri a diversi indicatori, usare “griglie di valutazione” , “generare” comunicazioni alle famiglie pre-impostate . Altro che seguire il bambino/ l’adolescente nel suo sviluppo evolutivo! La burocratizzazione della scuola, l’applicazione di “procedure” nate per le aziende e trasferite di peso nella scuola ha ridotto al minimo storico ( insegno da 40 anni) la possibilità di confrontarsi costruttivamente sui ragazzi, quasi neppure come gruppo classe, figuriamoci come individui, come adolescenti in una fase delicatissima della loro vita.
    Non amo le lamentazioni non seguite da alcuna proposta costruttiva, tuttavia l’ingranaggio sta stritolando ogni velleità di riportare lo studente/persona al centro dei nostri interessi. Ciò che si può e si deve continuare a fare è cercare, appena possibile, di risvegliare le coscienze di presidi e insegnanti su quello che dovrebbe essere il nucleo del ruolo di educatore: fare stare bene i ragazzi a scuola, trasmettere un po’ di passione per la conoscenza, limitare la trasmissione di contenuti, spingerli al pensiero critico e farli sentire attenzionati come esseri umani, con le loro fragilità e problematicità. Alunno Bes con PDP, alunno legge 104 con PEI e quindi sostegno sono etichette che servono solo agli adulti e agli operatori del settore per cercare di inquadrare personalità estremamente diverse in categorie che permettano a noi adulti di avere parametri fissi per “valutarle”. Che tristezza!

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    1. Purtroppo, cara professoressa, il DSM, un sistema di codificazione della personalità e dei suoi disturbi, pare avere fatto scuola,
      fornendoci repliche ancora più pericolose, poiché ora ci siamo appoggiati sulle spalle dei bambini.
      Mi chiedo se è possibile inclinare verso questo grave riduzionismo della personalità del bambino, a base di sigle, proprio mentre le neuro scienze mettono una pietra tombale su ogni pretesa di similitudine, vista le infinite possibilità dei neuroni di ogni cervello di organizzarsi in modo originale. Il disagio scolastico va affrontato con urgenza, i bambini e i ragazzi non possono aspettare, ma occorre intervenire senza tirare a indovinare e senza nascondersi dietro i numeri e le lettere, c’è una sofferenza che viene prima dei suoi effetti delle prestazioni.
      Come giustamente segnala lei, è necessario andare oltre la doglianze, passando ad una seria analisi del fenomeno e all’articolazione di qualche risposta. Credo debba essere questo l’impegno che sentiamo tutti, se amiamo la scuola, e ancora prima chi la abita, questo impegno va sentito come un mattone sulle nostre coscienze.

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