A quindici anni dall’inizio di una collana illustrata per bambini, “Crescere senza effetti collaterali”, mi sembra venuto il tempo di avviarne una seconda. Più cruda.
Non voglio intristire i bambini, ci mancherebbe, semplicemente accelerare il percorso iniziato insieme a Emanuela Bussolati a metà degli anni Dieci, attingendo alle osservazioni che si sono depositate in questi anni.
I bambini non sono bambini, nel senso che intendono tanti adulti, ossia ninnoli da tenere protetti, vasi delicatissimi, da riempire delle proprie fantasiose visioni della realtà, al riparo dalla polvere della vita, che, per questa via, finiranno per conoscere poco e male, con inevitabili problemi di adattamento.
Quando si parla di ritiro sociale dei ragazzini, bisognerebbe forse stabilire qualche nesso con le parole di prima. Adattarsi a un ambiente ignoto, a causa di quelle omissioni genitoriali, ed estremamente esigente, può essere estremamente laborioso.
In Svizzera ci sono all’incirca un milione e mezzo di gatti, uno ogni sei abitanti. Chi di noi non ama i gatti alzi la mano, eppure quei teneri quadrupedi ogni anno uccidono ciascuno una quarantina di animali, uccellini, lucertole, piccoli mammiferi, per un totale di circa 60 milioni di vittime, diciamo così.
Se questi numeri fossero, come discretamente probabile, rappresentativi delle proporzioni planetarie, significherebbe che ogni anno per mano dei gatti, sul pianeta perdono la vita diverse decine di miliardi di animaletti.
Noi uomini facciamo anche di peggio e le altre specie animali carnivore non sono da meno.
Non siamo obbligati a raccontare tutto questo, a anche altro, ai bambini, soprattutto per non creare loro problemi coi mici di casa, ma allo stesso tempo non possiamo continuare a fare credere ai piccoli che è tutto come appare nelle fiabe. Trovare un compromesso intelligente tra i due estremi, significa avvicinare i bambini al mondo che abitano, creando le premesse per un adattamento futuro meno complicato.
Ma significa anche consegnare alla vita sociale esseri meglio disposti verso il loro prossimo, prevenendo sofferenze che proliferano dove l’altro viene considerato un estraneo.
In bocca al lupo (nel senso originario) per questa nuova esplorazione.
Sono certa che sarà interessante per noi leggere quanto scrivere per voi autori.
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Grazie per l’auspicio, cara Giulia, spero che prima o poi troveremo il tempo per cominciare questo nuovo viaggio.
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Come la collana precedente, anche questa nuova di cui ci parla sarà un ottimo strumento che aiuterà gli adulti nel progetto educativo rivolto ai bambini. Uscire dalla confort zone della fiaba edulcorata espone educatore e bambino ai rigori della realtà, che come ci spiega lei, è ben altra cosa. Ma è dovere dei primi formare delle persone capaci di sopportare e capire i tanti fenomeni che circondano la vita, in primis la morte. In molte culture marginali i confini tra natura e cultura sono sottilissimi se non inesistenti. Lì il pensiero sembra più capace di capire che ci sono azioni che vanno fatte per necessità, ma è ben presente il limite e la responsabilità dell’agire individuale. In altre parole, se chiamo fratello il giaguaro, quando per necessità dovrò ucciderlo sarò cosciente per intero della mia azione e responsabile. Dottor Barrila’ la ringrazio per la sua ricerca continua e il sostegno che ci dà nel nostro cammino di persone.
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Grazie Laura, le sue parole sono molto più precise delle mie e vanno al cuore di ciò che cerchiamo, per ragioni anche comprensibili,
di eludere. Il punto rimane sempre lo stesso, non si possono nascondere all’infinito le domande scomode, un’abitudine che oggi è alla radice della questione, anzi dell’emergenza, educativa. Non è che porsi domande preluda sempre alle risposte, tuttavia i quesiti disciplinano la nostra ricerca e ci danno perlomeno l’illusione che vi sia una meta nel nostro agire. Mi creda, è già moltissimo.
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Come sempre, le tue riflessioni aprono mente e cuore a quella responsabilità etica che muove le azioni di ogni educatore.
Ed è proprio nel determinare l’esigenza di “domanda” (anche senza risposta) che trova spazio, in ogni ambito formativo, la possibilità di alimentare quell’ “adattamento meno complicato “ di cui ci parli.
Quello che di complicato c’è è il Sistema formativo ancora troppo lontano, nella pratica educativa, dal senso vero che dovrebbe avere ciascuno degli attori del Sistema : uno sguardo attento, una mente libera e la chiara consapevolezza dello scopo, del fine della tua azione formativa.
Grazie sempre.
Teresa
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Carissima Teresa, sei un’autorità in questo ambito di materia, quasi mi intimidisce ragionare con te, donna di scuola da tutta la vita, anche oggi che sei impegnata nel campo della formazione, dunque sai meglio di me che nella scuola iperveloce di oggi lo spazio per la persona si è molto assottigliato . “Vedere” un bambino non è facile, soprattutto se nessuno ti insegna dove guardare o se ti chiedono di stare più attento alle carte. Ti ringrazio molto per le tue parole, che interpreto come un incoraggiamento a questo sforzo, che spero abbia sempre più udienza nel mondo della scuola. Su questa pagina, per l’appunto, non ci sono risposte, ma possono sorgere delle belle domande, come quelle che lasci intravedere tu.
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Tutto quanto letto fino ad ora mi riporta nelle mie esperienze di scuola con i più piccoli ed anche con i miei figli. Ho sempre pensato sia giusto dire la verità ai bambini. La difficoltà è trovare le parole adatte alla loro capacità di comprensione, dando loro strumenti per affrontare le paure. Mi affido all’istinto e alle mie conoscenze, ma cerco aiuto quando mi sento senza strumenti (per questo trovo un valido aiuto nella serie pubblicata da Domenico ed Emanuela). Trovo sia giusto dire la verità, anche e sopratutto ai più piccoli se vogliamo essere adulti credibili. I piccoli chiedono, vogliono sapere e la vita anche per loro non è il paese dei balocchi. Molto spesso mi sono trovata a rispondere loro a domande sulla morte, a consolare un bimbo per la perdita del papà. Sono esperienze durissime ma che un educatore é chiamato ad affrontare. Il rapporto con i genitori invece è complicato, mi é capitato di dover affrontare un genitore arrabbiato perché in classe ho parlato della strage del Bataclan. In realtà avevo semplicimente risposto, spiegando e rassicurando un bimbo che raccontava durante il momento della conversazione in gruppo del mattino quanto aveva visto la sera prima al telegiornale. Per me è stato molto difficile, ma sicuramente non avrei fatto vedere a bimbi così piccoli certe immagini, ma in quel momentoho pensato che in fondo i bambini hanno bisogno di capire il mondo reale, di sentirsi al sicuro e protetti da noi adulti con gesti di affetto e parole che rassicurano. Credo sia importante però anche non anticipare, aspettare le loro domande, a mio parere la domanda segna il tempo giusto per dire verità e il tempo della crescita adatto per avere risposte.
Questo mio intervento vuole essere una semplice testimonianza di esperienza, nulla di più. Vorrei terminare con un quesito… In questi giorni con le mie colleghe maestre abbiamo dibattuto sulla necessità di commemorare il giorno della memoria con i più piccoli (3/5 anni). In tutta sincerità io non me la sono sentita. Potrebbe sembrare una contraddizione con quanto ho detto prima… Ma in realtà mi sono interrogata sul fatto non sia troppo presto raccontare quell’orrore e soprattutto con quali parole, come raccontare….Penso che ci vogliamo anche conoscenze storiche che i bambini così piccoli ancora non possiedono, che l’orrore di questi fatti possa davvero essere troppo travolgente e sia controproducente anticipare, mi sentirei io stessa troppo smarrita davanti a questo piccoli… …. Voi cosa ne pensate?
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Grazie Antonella delle sue parole.
Forse una via può essere aiutare a far crescere nei bambini il senso dell’ingiustizia.
Se sentiranno che è assurdo e ingiusto essere mandati via da scuola perché si è biondi, neri, bassi, con le lentiggini, ebrei, di Scannabue, con i piedi lunghi, loquaci o qualsiasi altra differenza possa venire in mente, un accenno al fatto che in passato è successo credo che sarebbe sufficiente, rimandando la commemorazione storica vera e propria ad altri cicli scolastici.
Mi pare che così si formi e si nutra quell’attitudine che Domenico ha evidenziato nel suo articolo.
In bocca al lupo col suo preziosissimo lavoro.
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Credo sia un ottimo punto di partenza, tanto più che si tratta di un tema di perenne attualità e piuttosto lontano da soluzioni
possibili. Il ruolo della scuola potrebbe essere decisivo, ma la scuola è piuttosto sola e spesso costretta a pensare ad altro.
Resta il fatto che il tema che stiamo affrontando è come un immensi insieme pieno zeppo di una miriade di sottoinsiemi, che piano piano vedremo di conoscere. Grazie
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Nei giorni scorsi mi confrontavo con due persone, adulte, entrambe malate di cancro. Avevano avuto un comune trascorso di incomprensioni con le equipe oncologiche che si curavano di loro, fraintendimenti legati alla narrazione dello stato di fatto da parte dei mnedici.
Quante vicende non sono così estranee al nostro dibattito, anche qui si tratta d’introduzione alla realtà, alla propria realtà, in questi casi piuttosto cruda, interpellandoci su una questione nodale, ossia come e quando passare certe informazioni delicate.
Antonella parla del cordone sanitario che molti genitori vorrebbero stendere intorno ai loro figli, ma con onestà riferisce anche i suoi dubbi.
Siamo in un territorio di confine, un grande psicologo americano, di chiare origini italiane, diceva che la psicoterapia è un’attività che si colloca tra la tecnica e l’arte, quest’ultima non è altro che una tecnica particolarmente difficile alla portata di pochi talenti, lo stesso credo valga per l’educazione, anch’essa sospesa tra tecnica a arte, tocca a ogni singolo educatore, in ogni singola circostanza, dosare l’una e l’altra, tenendo conto del terreno e del memento su cui viene a cadere l’informazione.
Teoricamente noi possiamo dire tutto ai bambini, la fase “artistica” dell’educazione, però, ci consente di spingergi più in alto.
Perché questo accada, lo ripeto sino allo sfinimento, occorre conoscere il bambino, non il bambino che ci portiamo dentro ma quello che abbiamo di fronte.
È proprio questa la ragione per la quale la prossima collana, se mai ci sarà, potrà pubblicarla solo un editore che condivida tale principio di base e abbia chiaro che tutto ciò che noi nascondiamo il bambino se lo va a cercare coi propri mezzi, fatto in sé non negativo, ma tale caccia al tesoro può tradursi in una deformazione degli eventi, in una loro esasperazione, in una presa di impressioni soggettive distorte, incrementando proprio quei fenomeni che, schermando totalmente i bambini, vorremmo risparmiare loro.
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