Un lettore mi chiede privatamente come mai leggendo uni degli ultimi post, che riguarda i bambini e i ragazzi, sentiva di riconoscersi. Questo senso di familiarità tra gli esseri umani, a prescindere dalla condizione anagrafica, è nascosto nei bisogni. Sono uguali per tutti, è il modo in cui li perseguiamo che ci rende diversi. Per comprendere meglio questa affermazione, faccio seguire poche righe, tratte dal mio ultimo libro, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, che costituiscono l’incipit del primo capitolo. Eccolo.
Tutti, proprio tutti, nessuno escluso.
Siamo come i bambini di una scolaresca che alzano simultaneamente le mani, gridando a squarciagola “io, io, io”, quando la maestra pone una domanda dalla cattedra.
La posta in palio è l’elogio dell’insegnante, il suo “bravo”, magari pubblico.
Qualsiasi comportamento nasconde il bisogno profondo di essere “visti”, individuati, liberati dall’angoscia dell’anonimato che ci opprime, dal timore di passare inosservati. In un campo di papaveri siamo attratti dalla bellezza dell’insieme, difficilmente ci soffermiamo su un singolo fiore; tuttavia, se uno di quei papaveri fossimo noi, l’atteggiamento “panoramico” degli osservatori ci apparirebbe frustrante, ferirebbe la nostra sensibilità.
Il modo che sceglieremo per realizzare questo desiderio, struggente e incessante, rendersi evidenti, deciderà le nostre sorti, spesso di quelle di chi ci vive accanto, meno frequentemente della nostra comunità, più di rado, è già accaduto e potrebbe riaccadere, del mondo intero.
Il suo interlocutore è fortunato, sa vedere l’altro come individuo e non come elemento di una categoria (ben etichettata, si intende).
Lo sguardo incomprensivo di molti adulti sui bambini e ragazzi è paradossalmente il meno giustificato. Se vivo nel mio paese da sempre posso faticare a capire un migrante; e se un bambino non si può identificare facilmente in un adulto (ma spesso almeno in parte ci riesce), ogni adulto è stato piccolo, dovrebbe solo essere abbastanza umile da riconoscerlo.
Allargando il campo: di recente ho seguito le polemiche sul fatto se Drusilla Foer sia o no catalogabile come trans e quindi se la sua partecipazione al noto Festival si possa considerare o meno un progresso.
Ho mollato dopo poco per esasperazione: nel filone del pessimo approccio attuale alle questioni di genere e di identità, sembrava ci fosse la gara a trovare il cartellino giusto, senza considerare che questa artista è brava e unica, come unici siamo tutti e così questo vorremmo essere visti.
"Mi piace""Mi piace"
Abbiamo una tendenza alle categorie precise, come se fossimo dipendenti dai segnali stradali, anche questa è una forma di rassicurazione, tuttavia, l’impressione che facciamo progressi c’è, malgrado i tempi lunghi richiesti dai mutamenti culturali. Alla fine Drusilla Foer a Sanremo c’era, ma mi pare altrettanto evidente che più il progresso avanza, più le sacche di resistenza, che pure si assottigliano, si incattiviscono.
Se considerà quanto è stato difficile superare il codice binario maschio/femmina (certo, i lavori sono ancora in corso), possiamo ritenerci discretamente soddisfatti, ma non si meravigli se i toni si faranno più cruenti, che non riesce a fermare il tempo con la ragione, ripiega sulla caciara.
Grazie Giulia, buona serata.
"Mi piace""Mi piace"