Mafie e criminalità. Vincere la violenza collettiva combattendo quella familiare

L’inclinazione alla violenza domestica, il mio lavoro mi suggerisce tale nesso, è principalmente correlata con precisi modelli culturali e tende a trasmettersi da una generazione all’altra per contagio ambientale. Il suo laboratorio per eccellenza è la famiglia.

Quando celebriamo giornate come quella dedicata alle vittime delle mafie, dovremmo ricordacene altrimenti ogni esecrazione rimarrà priva di effetti pedagogici e civili. In quella tragica parolina, “mafie”, foriera di lutti, imbarbarimenti e regressioni di interi mondi, purtroppo c’è anche qualcosa di nostro.

Un individuo abituato a considerare normale uno strumento correttivo basato sulla violenza, oltre a subire la ricaduta fisica e morale della stessa, acquisisce una “memoria predisponente”, alla quale certamente è libero di opporsi, ma che altrettanto certamente si porterà dentro come una miccia pronta ad incendiarsi. 

La diffusa convinzione seconda la quale la violenza tenderebbe a generare violenza, raramente viene applicata al terreno educativo, dove invece sarebbe quanto mai opportuno concentrare l’attenzione, perché è proprio lì che le percosse possono dare luogo a conseguenze, differite sul tempo, assai negative per l’interesse dell’individuo che le subisce e dei gruppi sociali che lo ospitano. 

Questo passaggio rende chiaro quanto sia improprio il termine “violenza privata” per indicare una situazione familiare in cui i genitori usano la coercizione fisica come strumento educativo, perché gli effetti che ne conseguono riguardano tutti, soprattutto gli innocenti, ossia persone al di fuori dallo scenario dove quelle violenze si praticano.

Proiettare oltre la dimensione “privata” la lettura delle conseguenze di una percossa inflitta a un bambino o a un ragazzo, è uno sforzo che dovremmo provare a compiere, perché in gioco ci sono interessi che superano il perimetro familiare, qualche volta enormemente. 

Disciplina senza lacrime, dunque, un traguardo possibile solo se il potere discrezionale dell’educatore cessa di essere arbitrio e si trasforma in servizio, anche spezzando precedenti catene di violenza, perché, come si diceva, chi percuote, molto probabilmente, è stato a sua volta percosso. 

Parafrasando un celebre detto che riguarda la storia degli ebrei, chi percuote un bambino sta percuotendo il mondo intero, perché nella testa della piccola vittima quel gesto sarà catalogato come “possibile”, dunque replicabile. Quando la violenza appresa in famiglia diventa replicabile, non potremo mai dire quale sarà la misura di quella replicabilità, tuttavia, considerato che la violenza nel mondo non è un ospite minoritario, una risposta possiamo forse intravederla.

2 pensieri riguardo “Mafie e criminalità. Vincere la violenza collettiva combattendo quella familiare

  1. Forse la difficoltà di vedere le somiglianze tra società e famiglia dipende dal non cogliere la categoria generale della sopraffazione: violenza fisica, violenza verbale, manipolazione… si può declinare in molti modi ma alla fine è sempre la volontà di imporre il proprio punto di vista (spesso abbinata alla incapacità di vedere quello altrui).
    Non è un caso che in molte zone la CO prenda il nome di “Sistema”: sistema è “ciò che sta su insieme”, che può essere rete salvifica o, come nel caso della CO, trappola paralizzante.
    Grazie Domenico della sua riflessione: mancano proprio proposte di lettura complessive della realtà che siano coerenti ma non dogmatiche, le sue parole sono una boccata d’aria.

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    1. Grazie a lei Giulia, può risultare alieno un pensiero che avvicina certi fenomeni sociali riprovevoli alle nostre case, eppure un edificio come la cultura della violenza e della criminalità si costruisce, mattone su mattone, col contributo di chi mette i primi mattoni, gli educatori.
      Buona giornata e ancora grazie per il suo contributo

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