Pochi giorni fa ci eravamo confrontati, anche grazie a diversi commenti, sul contenuto del post “La sublime natura di un gesto educativo”, dove ci eravamo messi in cerca delle tessere che compongono il delicato mosaico del rapporto genitore-bambino.
Avevamo visto che il bambino non si era ferito perché correva, ma perché immaginava che la madre avrebbe potuto percuoterlo a causa di quella sua corsa sfrenata. Questo ci dice che in effetti il piccolo era consapevole della pericolosità della propria azione, tanto che da immaginare persino l’entità della pena, forzando la mano alla verità, dal momento che la madre mai l’aveva percosso prima di allora.
Tuttavia, sperimentava, correva, sicuro che qualcuno avrebbe stabilito dei limiti di velocità e messo dei semafori, regolando la circolazione; dunque, arrivava a capire autonomamente che il suo era un rischio calcolato proprio perché si muoveva in uno spazio protetto, la famiglia, e che nello spazio familiare avrebbe trovato contenimento ai propri eccessi. È questo che si aspetta un bambino dai propri educatori, uno spazio normato con intelligenza e rispetto, dove provare anche l’ebbrezza della disobbedienza, passaggio che gli consente di mettere alla prova l’ordinamento di casa, l’impianto educativo e la sua capacità di reazione. Una sorta di esercitazione antincendio che lo aiuta a verificare l’affidabilità e la sicurezza dello spazio educativo, le sue norme e le sanzioni previste in caso di inadempienza.
Prove di carico utilissime alla costruzione del suo rapporto con gli altri.
La madre, ancora prima di entrare nella stanza, era presente nella coscienza del figlio e in qualche modo determinava il suo comportamento. Se non ci fosse stata, egli non avrebbe saputo neppure per chi correre, sarebbe stato come giocare una partita senza l’arbitro, e i bambini amano l’arbitro perché la sua presenza acclara che non si tratta di una partita amichevole, ma soprattutto che c’è qualcuno per cui conta qualcosa. Questo è il grande valore dello “stare”, una circostanza piena di rimandi consolanti per il piccolo.
Il bambino e la madre si parlavano senza parole, cooperavano, recitando due ruoli diversi, legittimandosi reciprocamente. Il figlio, con il suo timore di essere punito, ne certificava l’autorità e nello stesso tempo la percepiva come garante di regole create perché lui sapesse di essere parte di un tutto popolato da altri simili.
La madre, osservando senza intervenire, ne sanciva il diritto di sperimentarsi, allargando gli spazi della sua libertà, ma rammentandogli che quella non è mai assoluta.
la cosa più complicata è trovare l’equilibrio tra misura e sfida nell’incontro con il mondo e agendolo trasmetterlo ai figli
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Un compito esaltante, creda Nicoletta, glielo dico da papà a mamma. Grazie
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Domenico!!!! ma perché non hai iniziato 15 anni fa a scrivere questo blog!!! 😍
Grazie dei tuoi preziosi consigli!
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Accontentiamoci e cerchiamo di recuperare! Grazie di cuore
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Bellissima sintesi Domenico, grazie; trasmette la serenità di un bene possibile, non facile però semplice.
Purtroppo la realtà, distratta e di corsa, resta molto lontana.
Mio figlio diciassettenne contesta alla scuola i limiti arbitrari, uniformi e uniformanti all’insegna della facilità; non posso dargli torto.
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Credo, cara Giulia, che quello posto da lei sia uno dei temi più stimolati di questa epoca, almeno per quanto riguarda il rapporto
tra le generazioni. Le fissità allontanano, e credo spetti a noi adulti togliere il “freno a mano”. Grazie
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