Diversi di voi mi chiedono quale dei miei libri potrebbero leggere per l’estate. Non riesco a scegliere, sono il padre di tutte quelle riflessioni. Preferirei lo facesse il lettore.
Così ho chiesto al mio editore se fosse possibile pubblicare le premesse di ogni volume. Ottenuto l’assenso, ve le propongo una alla volta. Si tratta di poche pagine che “parlano” dello spirito e del contenuto del libro.
Cominciamo dal più recente, un volume uscito in piena pandemia, che non era in programma, ma nasce da un’idea della mia editor, Francesca Cappennani, con la quale lavoro da dieci anni, per Feltrinelli. Un giorno mi telefona, era appena uscito “Tutti Bulli” e mi dice: “Siamo in trattativa per la traduzione un libro straniero sui grandi cambiamenti, a cominciare dalla pandemia, e sulle risposte possibili. Sarai stufo di scrivere, ma questi sono i tuoi temi, e ti chiedo uno sforzo”.
Le sono grato perché a queste pagine sono molto affezionato, appartengono a un uomo che si avvicinava ai Settanta anni e sperimentava la prospettiva di altri cambiamenti.
Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere. (Ed. Feltrinelli. 13 euro)
Premessa. Ciò che non potevo sapere in anticipo
Sono solito scrivere la premessa alla fine del lavoro, quando oramai è certo cosa conterranno le pagine che consegnerò all’editore e lo spazio per i ripensamenti si è assottigliato quasi fino a sparire. Credo sia indispensabile che essa contenga perlomeno lo spirito di quello che si troverà scorrendo le pagine, non si può barare, come accadeva nella prima tradizione operistica quando la sinfonia poteva essere riciclata, qualche volta transitando disinvoltamente da un’opera seria a un’opera comica. Quella del Barbiere di Siviglia, e non stiamo parlando di una creazione qualunque, arriva direttamente dall’Aureliano in Palmira, un dramma serio composto tre anni prima, ossia nel 1813, ma quando mancava ancora un anno all’esordio della celebre opera comica, quella sinfonia avrebbe fatto un’altra tappa, nel 1815, in una nuova composizione di argomento non certo leggero, Elisabetta regina d’Inghilterra.
Con una premessa non può funzionare così, bisogna aspettare la fine, almeno io preferisco fare così. Non è che prima non avrei avuto niente da dire, il fatto è che la mia consapevolezza, in quel tempo di ideazione, era legata quasi per intero all’intenzione originaria, presa nel suo insieme, e non al suo sviluppo successivo che, spesso, prende strade non previste, talvolta sgusciando addirittura fuori dai bordi immaginati, sebbene questi fossero sufficientemente distanziati per fronteggiare anche abbondanti mutazioni di intenti.
Credo valga per ogni madre che mette al mondo un figlio, tale è un libro, certo si batterà per farne una persona degna di stare in mezzo ai propri simili, ma il suo auspicio dovrà fare i conti con un certo numero di imprevisti e interferenze, che non può ancora conoscere, avendo il bambino appena iniziato a respirare autonomamente.
Questo vale quando si crede di avere piena familiarità con gli argomenti che si intende sviluppare. Si crede, appunto, perché scrivere mette esattamente nella condizione della madre di prima, determinando apprendimenti incessanti, così che dunque quando metti bene a fuoco un aspetto accade che si facciano presenti significati a prospettive che non avevi considerato sino in fondo, dunque il prodotto finale può essere leggermente, talvolta addirittura drasticamente, diverso da quello che avevi prima ideato e poi disegnato sulla carta. Possiamo toccare con mano questo effetto anche nelle circostanze più banali, come quando scegliamo un colore sul pantone perché ci piace ma poi restiamo delusi perché osservandolo sulla parete non ci sembra più lo stesso, anzi non lo è affatto, malgrado l’imbianchino si sia attenuto scrupolosamente alle nostre indicazioni.
Il primo a usare l’espressione “eterogenesi dei fini” è stata Giambattista Vico, il quale sosteneva che la storia umana, pure mostrando un chiaro indirizzo, procede anche scartando dal binario, così, mentre gli uomini sono intenti a raggiungere un determinato obiettivo, possono ritrovarsi da tutt’altra parte, eppure se fate una verifica su Wikipedia, sembra quasi che la scintilla si scaturita da altre mani. “L’espressione eterogenesi dei fini, in tedesco Heterogonie der Zwecke, fu coniata dal filosofo e psicologo empirico Wilhelm Wundt. Con essa si fa riferimento a un campo di fenomeni i cui contorni e caratteri trovano più chiara descrizione nell’espressione conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali”. Nulla di male, se non per il particolare che lo scienziato tedesco è nato quasi due secoli dopo il pensatore italiano. Insomma, una prova del paradosso dell’imbianchino e del pantone. Persino l’eterogenesi dei fini sembra scontare sulla propria pelle le sue stesse previsioni.
Ecco perché scrivere una premessa quando non è ancora finito il percorso di formazione del testo mi riesce difficile. Occorre attendere che la furia degli elementi si sia placata per potere scattare una foto del panorama, la realtà si concede quando vuole e come vuole, lo sapeva bene il grande pittore Pierre-Auguste Renoir, in tarda età, quando parlava della lentezza della sua percezione: “All’inizio vedo il soggetto come in una nebbia. So che contiene già tutto quello che vedrò più tardi e mi si rivelerà solo col tempo. Qualche volta sono proprio le cose più importanti ad apparire per ultime”.
Ecco, meglio di così non si poteva spiegare la ragione per la quale è impossibile, almeno per me, scrivere la premessa ancora prima di cominciare la stesura di un volume. Le cose importanti, come dice il pittore francese, appaiono per ultime.
Dunque, finito l’ottavo capitolo, era tempo di premessa, ci stavo pensando perché nelle poche pagine della sua estensione essa deve fare intuire cosa sta per succedere, mostrare i semi della pianta che prenderà consistenza a mano a mano che si avanza nella lettura.
Dovevo raccontare perché è così importante ricordare che la cooperazione modella la psiche e la società mentre l’individualismo, come un cancro inarrestabile, distrugge l’una e l’altra. Non solo, desideravo mettere in rilievo la strettissima relazione che esiste tra gli individui e i popoli, come i movimenti di uno determinassero reazioni complementari da parte di un altro, anche quando certi effetti non si colgono immediatamente.
In realtà ero piuttosto lento, anzi non avevo idea di come procedere, sennonché, per puro caso, mi sono imbattuto nei Sassoni della Transilvania.
È successo per caso, stavo partecipando ad una video conferenza il cui protagonista era un uomo che per anni si è occupato dei diseredati della Romania, di cui quella regione fa parte, quando qualcuno si è messo a spiegare perché la riunificazione della Germania aveva avuto degli effetti collaterali imprevisti e dannosi sulle popolazioni autoctone della Transilvania, in realtà si trattava del punto terminale di un percorso a ritroso iniziato diversi anni prima che il celebre muro cadesse.
Nel 1141, alcune migliaia di coloni tedeschi giunsero nel territorio su invito della monarchia che allora vi regnava. Un secolo dopo il re ungherese Andrea II riconfermò per sempre gli ampi privilegi che i coloni tedeschi avevano ricevuto quando si stabilirono, ossia libertà fiscale, libertà di movimento, libertà di scegliersi i loro giudici e i loro sacerdoti. Quando poi la Romania comunista e la Germania Occidentale allacciarono formali relazioni diplomatiche, si generò un progressivo movimento al contrario da parte dei discendenti dei sassoni verso l’antica madre patria tedesca, il ritorno subì una poderosa accelerazione tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta del ventesimo secolo, centinaia di migliaia di rumeno-tedeschi, almeno metà dei quali erano Sassoni della Transilvania, tornarono a casa e il cerchio si chiuse.
Oggi nella regione dei Carpazi vi sono pochissime migliaia di Sassoni, non molti di più di quelli che nel dodicesimo secolo avevano iniziato il flusso migratorio dalla Germania verso quella terra promessa. Le conseguenze di quelle defezioni furono devastanti per l’economia locale, e la disoccupazione diventò un’emergenza molto drastica, e probabilmente si proietterà nel futuro per molto tempo, giacché i Sassoni rappresentavano la parte più imprenditoriale della zona.
Del resto, se basta una moria di api a mettere in discussione l’equilibrio di un ambiente, possiamo derivarci tutti gli altri scenari possibili.
Quando si rompono legami cooperativi così intrecciati, gli acrobati rimangono privi di rete di protezione e ogni caduta può essere letale.
Nei giorni in cui la mia editor mi chiese di iniziare questa piccola impresa, erano gli ultimi di febbraio o forse i primi di marzo del 2020, la pandemia virale era ancora solo un’epidemia, io ero tra coloro che speravano fosse solo una pistola ad acqua, mischiavo le mie attese con la realtà, forse rifiutavo di vedere.
In quegli stessi giorni ero stato invitato, allora si poteva ancora andare in studio, da un telegiornale nazionale, qualcuno faceva dell’ironia sulla mascherina di politico, raccontando che quelle immagini potevano impressionare, spaventare, i cittadini. Accade regolarmente di rifiutare la realtà quando ciò che vediamo si allontana troppo dalle nostre attese.
Se avessi scritto questa premessa allora, alla fine di febbraio, quando mi è stato chiesto di iniziare il volume, sarebbe scaturito un testo completamene diverso da quello che state leggendo, perché nei tre mesi che separano la prima sillaba dall’ultima qualcosa è cambiato, credo anche nel mio mondo interiore, anzi ne sono certo, sottoposto ad una pressione esterna del tutto innaturale, perché dopo milioni di anni segnati da un incessante cammino di avvicinamento, lo stesso da cui sono nate tutte le meraviglie attribuite all’uomo, mi è stato detto, ci è stato detto, molto giustamente, che gli altri per noi erano diventati un pericolo. Una rivoluzione antropologica, mi si perdoni se uso questo parolone abusato, ma non ne trovo uno diverso, qui antropologico è da intendersi proprio nel suo significato letterale, ossia relativo all’uomo in tutti i suoi aspetti, alla sua natura più propria, che è innanzi tutto quella di un animale che deve tutto alla sua propensione cooperativa, altruistica.
Tuttavia, anche stavolta, ci si chiedeva di essere solidali perché allontanarsi significava salvare noi e i nostri simili, il fatto è, però, che per noi tutto ciò che è bene si sposa con l’idea di avvicinamento, di solidarietà, di condivisione. Per questo è stato così difficile. Era innaturale.
Era innaturale sopportare la rarefazione forzata delle relazioni. Era innaturale agire contatti all’interno di una realtà smaterializzata, mancava l’onda da cavalcare.
Ebbene, proprio tale innaturalità è la prova più potente della nostra naturalità, che in queste pagine cercheremo come si cerca la parte più preziosa di noi, quella senza la quale non solo non saremmo ciò che siamo, ma probabilmente non saremmo.
Ps. Il destino non esiste, ma talvolta qualche suo parente lontano si affaccia nelle nostre giornate, non sempre con un sorriso.
Fino a una settimana fa non sapevo neppure chi fossero i Sassoni della Transilvania, avete letto qualche riga sopra come mi ci sono imbattuto. Casualmente.
Poi, quando avevo già consegnato il manoscritto alla mia editor, i Sassoni della Transilvania si sono rifatti vivi e sono stato costretto ad aggiungere una postilla, quella che leggerete, perché stavolta il caso è stato davvero capriccioso.
Un incidente autostradale, in queste ore, nei pressi di Arezzo, un Van con otto persone a bordo, dopo avere sbandato per un paio di chilometri, urta un camion fermo in una piazzola. Muoiono due bambini e i loro due nonni, di una cinquantina di anni. Il conducente, padre dei due bimbi e figlio dei due nonni, viene arrestato.
Un paio di giorni dopo affiorano le prime indiscrezioni. Non era ubriaco e non era sotto l’effetto di stupefacenti, semplicemente stava guidando da trenta ore, con soste solo per i bisogni urgenti. Agli inquirenti dirà che non riusciva “a tenere gli occhi aperti”.
In effetti venivano da lontano, erano sinti della Transilvania, proprio l’etnia maggiormente penalizzata dalla defezione dei Sassoni.
Ecco, quella diaspora al contrario, che aveva impoverito l’economia e creato una grande sacca di disoccupazione, forse era la causa della migrazione di quella famiglia di zingari e, indirettamente, di quella tragedia.
Si, siamo intrecciati. Oltre ogni immaginazione. Chi non se ne avvede o chi vorrebbe costruire la propria fortuna sulla negazione di tale evidenza, di tale fondamento indispensabile alla nostra umanità, farà scempio del proprio mondo interiore e della propria vita. Se fossero i soli a essere sacrificati non sarebbe una grande perdita, ma la biologia insegna che talvolta può bastare una cellula strafottente per minare l’intero organismo.
Grazie Domenico bella idea, anche per chi si trova a rileggere: se si hanno occhi nuovi si trovano nuovi spunti.
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Grazie a lei, Giulia, anche per me è cosi. Rileggere mi aiuta a guardare meglio.
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Siamo intrecciati e chi non se ne avvede fa un bel casino: a stessi, a chi sta loro accanto, al clima sociale e ambientale. E’ di questi giorni la notizia del cane che fiuta il malloppo di 5 milioni di euro nelle terre degli ‘alberi degli zoccoli’. Bravo il cane, bravi i finanzieri. Stupore sui media. Di cosa ? Mi chiedo.
Adoro le terre dell”albero degli zoccoli’. Sono le mie terre. Le terre dei bachi da seta, dei mezzadri, delle filande così descritte dai nonni. Le terre dell’edilizia, della villetta, dell’orto ordinatissimo e per quelli più capaci, l’occasione di fare gli imprenditori. Tanti si sono messi in proprio in tutti i settori dell’edilizia: lattonieri, falegnami, imbianchini, idraulici ….
La pianura povera, sempre umida estate e inverno è diventata una zona ricca e inquinata.
Inquinata nell’ambiente e nell’animo.
La sete di riscatto dalla povertà e dalla fatica ha reso tante persone ingorde, direi malati ossessivi dell’accumulo. Una ossessione che non si vede socialmente perché i soldi fanno ‘fighi’. Fosse un’ossessione per la spazzatura, caso successo in un paese vicino, sarebbe socialmente condannabile.
Credo che la miseria, la fatica e l’ignoranza portano ad avere una concezione ‘io mi salvo da solo’ e, per salvarmi da solo, accumulo. Come Mr Talpon nel film di Pollicina che ostentava ricchezza ma nelle viscere della terra.
Un accumulo sterile che non frutta a nessuno, se non la paura di perdere i soldi o essere fregati.
Quanto migliorerebbe la vita dei nostri paesi e delle nostre comunità se quei soldi fossero spesi legalmente? Non dico regalati, ma spesi legalmente. O meglio ancora guadagnati legalmente.
Ripeto adoro la mia terra ma ha tanti problemi non risolti come l’intolleranza verso gli immigrati, salvo sfruttarli per accumulare malloppi da nascondere.
Agli altri il compito di intrecciarsi anche con gli immigrati ed avere il coraggio di salvarsi insieme.
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Dani, non saprei cosa risponderti, un piccolo trattato di antropologia culturale, cui mi permetto di aggiungere un breve capitolo, banale ma significativo.
Giovedì al mercato, c’era una bancarella di formaggi di una valle bergamasca, molto ricca di prodotti tipici, ma nemmeno un prezzo esposto. Già un indizio. A comprare non c’era un’anima viva. Si è fermato un signore, a occhio e croce un pensionato, a chiedere il prezzo, dandosela subito a gambe levate quando gli è stato risposto “40 euro al chilo”, aggiungendo che era in offerta. Due bancarelle più in la c’era la fila, ottimi prodotti, alta qualità, prezzi alla portata dello stesso pensionato, che infatti si è tuffato sul reggiano 48 mesi di stagionatura, 19 euro al chilo.
Il territorio dove abita quella che chiami “la mia gente” è uno dei miei bacini professionali, credo di conoscerlo quasi quanto te, ne apprezzo l’operosità e la serietà nell’impegno, ma le criticità che tu metti così bene in rilievo sono figlie della perenne insicurezza, quella che spesso porta all’accumulo per l’accumulo, per difendere il quale si fanno poi scelte elettorali conseguenti, puntando su soggetti che dell’individualismo e della territorialità fanno una mistica.
Una mistica pericolosa.
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