Tutti Bulli. Perché una società violenta vuole processare i ragazzi

Dopo la premessa di “Noi restiamo insieme”, ecco quella di un altro volume recente, “Tutti Bulli”, pagine iniziali dove già si coglie la filosofia di approccio al fenomeno che poi verrà sviluppata nei vari capitoli.
Tutti Bulli. (Ed. Feltrinelli. 13 euro)

Premessa. Adulti alla guerra con se stessi

Il teatro della violenza, persino superfluo dirlo, non è la scuola ma il mondo intero. La scuola è un sottoinsieme della società, un bambino che gioca in una pozzanghera piena di fango, sporcandosi, ma non è lui a produrre quella melma che lo colora. Solo più tardi diventerà un contributore, come gli altri.

Alla scuola si rimprovera di non essere in grado di fermare la violenza al suo interno, rimprovero pertinente, peccato che arrivi da individui e gruppi umani che quella violenza coltivano con grande lena e non sembrano più bravi della scuola nel contenere certi fenomeni degenerativi che attraversano la loro attuale esistenza. 

Non possiamo isolare un luogo, per quanto importante, facendone l’epicentro di comportamenti che riguardano l’intera collettività, e che dunque possono diventare comprensibili soltanto se mi mettono in connessione con tutto ciò che li circonda e che li genera. L’educazione, come un’epidemia buona, funziona solo per contagio, per imitazione, le parole non potranno mai sostituire la trasmissione testimoniale, perché nessuna parola può esorcizzare patologie che nascono da modelli educativi intrinsecamente sbagliati. 

A questo occorre aggiungere che il bullismo è intergenerazionale, non riguarda solo i ragazzi ma investe tutti gli strati anagrafici, la filiera educativa al completo, anche la scuola, con tutti i suoi attori, non solo i ragazzi, come ci racconta la vicenda di questo quarantenne, che insegna Latino al liceo classico. 

Il professore è un tantino pedante e, sebbene conosca perfettamente la propria materia, forte di una cultura classica davvero notevole, il suo dirigente lo avversa e anche gli studenti gli si rivoltano contro, facendo, questi ultimi, continue azioni di disturbo durante le lezioni. Nessuno a scuola gli offre aiuto, neppure i colleghi, che manifestano indifferenza e, addirittura, non perdono l’occasione per farlo sentire fuori posto, confermando con il loro silenzio-assenso la legittimità del trattamento gli viene inflitto quotidianamente. Il silenzio-assenso è uno degli attori protagonisti quando si sviluppano azioni sopraffattorie, nessun bullo sarebbe così forte, nemmeno se agisce in branco, da vincere il braccio di ferro con una piccola comunità unita e consapevole della legittimità dei propri diritti.  

In questa vicenda di bullismo, trasversale e dal basso verso l’alto, si salda un’alleanza innaturale, un’azione coordinata dal dubbio profilo educativo, che metterà la vittima in condizioni estreme, costringendole a cercare aiuto nei farmaci per guadagnarsi un tozzo di pane. Un prezzo troppo alto, considerato che la pena si replica ogni santo giorno.  In questo caso le asimmetrie all’interno del corpo docente, si sono rese responsabili di una violazione dei diritti di un giovane docente, avendo sottilmente incoraggiato i ragazzi più prepotenti. Quando non si canta in coro, in certi ambienti educativi, i più fragili possono rimanere travolti. Accade in tutti i luoghi dove occorre intervenire con coerenza. La mamma di un giovane paziente è su tutte le furie. Il marito è affetto da un disturbo ossessivo, che in casa determina una situazione pesante, che investe anche la serenità del figlio, così la donna chiede alla psicologa che tiene in cura il marito, di poterle parlare, anche per essere consigliata sul da farsi. “Mi ha fatto una scenata, dicendomi che non se ne parlava nemmeno, aggiungendo che mio marito era grave e andava ricoverato, invitandomi a prendere contatti col Cps”. Dopo qualche giorno, la donna incontra la psichiatra del Centro, che rivolta la frittata: “Signora, stia tranquilla, la collega psicologa è ansiosa, suo marito non necessita di alcun ricovero”. A questo punto la confusione è massima, non si sa che strada prendere: “Il risultato è che mio marito ora si cura da solo e senza farmaci, una decisione che a questo punto mi sembra la più saggia!”. Questi sono i risultati che produce un esercizio contraddittorio dell’autorità. 

Siamo influenzati e modellati da quanto accade intorno a noi, una pressione continua che possiamo temperare con la nostra libertà, anch’essa in soggezione di fronte all’apporto dell’ambiente, un’onda capace di travolgerci se la nostra piccola diga non è stata costruita a regola d’arte e manutenuta con continuità, ma neppure a queste condizioni può considerarsi sicura, perché l’inerzia dell’ambiente può insidiare anche il più solido dei manufatti, se ciascuno dei suoi mattoni si mette in proprio, pensando di potere opporsi ai prepotenti.

Certo, l’ambiente non è una prigione dalla quale è impossibile evadere, tuttavia la sua influenza sul comportamento di chi vi è esposto è potente, un principio che vale doppiamente per un bambino o un ragazzo, persone in formazione, come i loro argini, che certo assorbono parole e precetti dal contesto educativo, ma soprattutto i modi di agire, cogliendo le contraddizioni tra detto e fatto. 

A questo salto tra le parole e i fatti, i ragazzi tendono a reagire in due modi precisi, da una parte invalidando la fonte, che così perde ogni autorevolezza, oppure assumendo quell’incoerenza come un fatto costitutivo del comportamento adulto, incorporandolo, parzialmente o totalmente, nel proprio. Del resto, un capitano ubriaco non può aspettarsi che i marinai siano astemi, così come un dietologo sovrappeso non potrà mai pretendere di essere preso sul serio dai clienti. 

Sebbene sia di questo, il bullismo, che ci occuperemo, è giusto precisare che quanto accade a scuola, un mare di modeste dimensioni, è una semplice conseguenza di quanto si agita negli oceani, e tale rimane, persino quando alcuni insegnanti umanamente impreparati complicano le cose, perché i criteri per selezionare un educatore, questo è in definitiva un insegnante, non sono stati stabiliti dalla scuola stessa, bensì da soggetti che sembrano preoccupati di cambiare costantemente la forma dell’esame di maturità, dimenticando di affrontare questioni che riguardano l’identità dei nuovi cittadini, attraverso interventi sociologicamente e pedagogicamente fondati, che abbiano alle spalle una “visione”, indispensabile per non improvvisare. Una visione, dicevamo, una visione chiara dello sviluppo della personalità dei bambini e dei ragazzi

Soffermarsi su certe azioni sopraffattorie, come se riguardassero solo la scuola e le nuove generazioni, non ci aiuta a capirle ma, soprattutto, ci rende complici di un’attribuzione arbitraria e disonesta, perché mette a carico di una parte della società, peraltro molto esposta -a causa delle difficoltà implicita nell’età evolutiva- di comportamenti che incubano e si manifestano nella famiglia e nelle comunità allargate. 

Una tecnica antica, incentrata sulla dislocazione delle responsabilità, da cui discendono in linea diretta ingannevoli semplificazioni e pesanti conseguenze. Alla radice di questo spostamento troviamo un meccanismo paranoico, nato proprio per collocare fuori di noi le cause dei nostri limiti e dei problemi che ne scaturiscono, facendoci accanire contro coloro ai quali viene attribuita la colpa. Il mito del diverso che ci minaccia attraversa la civiltà da quando ancora non poteva chiamarsi così, è responsabile di sofferenze indicibili e persino di genocidi. Quando si presenta in maniera vistosa o addirittura clamorosa, gli anticorpi sono più lesti a mettersi in azione, se si tratta invece di spostamenti lenti, ma non per questo meno pericolosi, la reattività dei gruppi umani non segue le stesse regole. 

Un’attribuzione opportunistica, che da tempo punta a collocare sulle spalle delle giovani generazioni problemi che invece sono stati creati nel fertile laboratorio del mondo adulto, che soffoca gli infiniti giacimenti di sapienza e di talento presenti nell’animo di ragazzi pieni di energia, ma sfiancati ancora prima di assumere un ruolo. 

Un’energia che si alimenta della voglia struggente di lasciare un’impronta del proprio passaggio, di non essere dimenticati. Un desiderio che, quando inappagato, può trasformare qualsiasi individuo in un nemico di se stesso e dei propri simili.

Un’energia sostenuta da laceranti bisogni di legittimazione nonché da dubbi esistenziali profondi, spesso indicibili a causa dell’esiguo vocabolario posseduto dei ragazzi di oggi, ma saldamente impiantati nel loro mondo interiore. Un’energia, però, sovente mortificata della carenza di guide adulte credibili, capaci di orientarla verso scopi che diano senso alla vita di chi si affaccia nel temibile palcoscenico dei collaudi sociali, oggi più che mai caduti sotto la signoria dell’efficienza, della prestazione.

Un mondo inospitale per chi muove i primi passi e deve registrare la propria inadeguatezza, l’insufficienza delle proprie forze, di fronte all’innaturalità delle richieste che arrivano dall’ambiente. 

Eppure, malgrado l’illogicità di tale richiesta, si chiede ai ragazzi di diventare ciò che noi non siamo in grado di essere, così finiamo per accompagnarli senza educarli, viziandoli o trascurandoli, senza vie di mezzo, perché il criterio non è quello di servire il loro interesse, semmai la necessità di non crearci fastidi, di non disturbare il sonno delle nostre coscienze, per questo li etichettiamo, quando toccano i tranquillizzanti equilibri di un passato che siamo troppo pigri per mettere in discussione.

Quei comportamenti che tutti noi abbiamo deciso di condensare nel sostantivo  bullismo, sono solo una tappa di questa infinita disputa, che in definitiva è una guerra contro noi stessi, impossibile da vincere, se non ridistribuendo in modo onesto ruoli e responsabilità nella commedia del rapporto tra le generazioni, macchiato dalla continua invenzione di nemici, esattamente come fecero e fanno uomini a corto di idee e di progetti. 

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