Sul tragitto che mi conduce al lavoro, mi imbatto, accade quasi tutte le mattine, nella stessa scena. Una lotta all’ultimo sangue tra un bambino e la sua mamma.
Lui resiste, è incollato, letteralmente, alle sbarre del cancello, rifiuta di salire sul mezzo che dovrebbe portarlo a scuola dell’infanzia, piange, di quel pianto angosciato che angoscia. Non vuole andarci. Lo guardo, solidale, perché anche a me accade di “non volere andare” al lavoro, chissà a quante persone, di ogni età, accade tutti i giorni. Accadde anche a Norma, sacerdotessa dei Druidi, convocata dal suono del gong a celebrare i riti sacri proprio nel momento in cui scoprì che il proconsole romano, da cui segretamente aveva avuto due figli, era l’amante della giovane sacerdotessa Adalgisa. Eppure, dovette andare.
La mamma si vergogna degli sguardi che attirano gli schiamazzi del figlioletto, cerca di mantenere il sangue freddo, ma si percepisce l’esasperazione dell’abitudinarietà, accentuata dalla fretta di dovere recarsi al lavoro, al pari di Norma, cosa che non potrà fare se non consegna il piccolo alle maestre. Talvolta la vedo piangere, come se non avesse più energie, ma non può rinunciare al lavoro, così con un estremo gesto di autorevolezza, che a me pare finto, lo abbranca e lo carica in macchina, tra urla e calci tirati dove capita. Entrambi corrono per conto terzi, anche se farebbero a meno.
I piccoli, come i grandi, sono travolti dal ritmo che abbiamo impresso alle nostre vite, mi capita di raccontare che se rallentassimo, anche di poco, perderei metà dei miei pazienti che, come quel bambino, si sentono sfregiati dalla ripetitività di accelerazioni e distacchi, dagli ambienti competitivi in cui consumano le loro giornate.
Tutti paghiamo un prezzo alla velocità, i bambini quello più alto, loro non capiscono la ragione della frenesia che li circonda, i grandi, invece, la sanno ma il risultato non cambia, perché la velocità è incompatibile con la normalità. Che si conoscano o meno le ragioni.
Se tutti fossimo più onesti, denunceremmo questo inganno invece di invocare bonus, perché un modo di funzionare che ammala è malato e finisce per travolgere anche chi dovrebbe aiutare le vittime. Penso alla mole ai compiti che vengono assegnati ai bambini e ai ragazzi, alla fine della scuola, uno dei tanti casi in cui anche gli insegnanti cercano di riempire la frustrazione attraverso la quantità, la bulimia, generando solo rabbia in chi, almeno d’estate, vorrebbe rallentare.
Mi godo tre giorni di ferie, guardo una grande roccia. Deve essere finità qui milioni di anni fa, forse quando le collisioni tra placche tettoniche diedero origini alle Dolomiti. Basterebbe questo dato temporale a commuovere l’osservatore, invece ciò che mi colpisce è qualcosa di più effimero. Sopra quell’enorme sasso sono cresciuti dei pini.
Mi chiedo come avranno fatto a radicarsi sulla pietra, a resistere alle intemperie fidando su artigli precari, ma credo di saperlo, la pazienza.
Amo le sfacciataggini della vita, di tutta la vita, non solo di quella umana. Il bambino ribelle, a cui pensavo mentre guardavo la roccia, vorrebbe lo stesso tempo per potersi radicare, con calma, nelle giornate, nell’esistenza. Lo vorrebbero anche i genitori, ma l’orologio è nelle mani di altri.
Rifondare la scuola, la società, significa domandarsi cosa c’è fuori, come vive la gente, qual è il prezzo della resistenza. In caso contrario quella stessa scuola, alleato auspicabile, diventerà solo uno dei tanti problemi da affrontare. Uno dei più grossi, per giunta.
Una coppia di colombacci aveva fatto il nido in un vaso di fiori sul nostro balcone. Insolito, a detta dell’amico guardaparco cui avevo chiesto consiglio.
Ci siamo impegnati a non disturbare quando bagnavamo le altre piante e ad assicurarci che la tenda da sole fosse sempre calata quel tanto da riparare il nido. Combattendo la curiosità abbiamo resisitito alla tentazione di immischiarci, aspettando.
Per alcune settimane quel nido è stato il nostro calendario quasi immobile, segnato solo dall’avvicendarsi degli adulti e dal nostro cercare con l’orecchio un nuovo pigolìo; ci ha ricordato che anche se sembra che non succeda niente non è detro che sia così.
Purtroppo le uova non si sono schiuse e i genitori mancati hanno lasciato il nido.
L’amico guardiaparco ci ha rassicurati che i colombacci non abbandonano mai i piccoli, quindi se se ne sono andati era passato il tempo ed erano certi che non sarebbero nati.
Seguendo le sue indicazioni ieri ho tolto il nido, con molta malinconia e un po’ di fatalismo, ma anche conscia dell’utilità di essermi confrontata con questo tempo immodificabile.
Come i suoi pini sulla roccia il nostro nido ha avuto un tempo prorio, a differenza di noi.
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Provo una grande solidarietà per quegli animali, la loro devozione ai compiti che sentono propri, è un grande esempio per gli uomini. Già, ma gli uomini, non saprei attraverso quale logica, sono oramai convinti che la natura è un semplice scenario delle loro scorribande. Grazie
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Mi chiedo se questa sua originale e azzeccata riflessione sulla velocita che ci “ammazza” coi suoi ritmi vorticosi possa essere una delle chiavi di lettura per interpretare quel fenomeno esploso nell’ultimo anno delle cosi dette “grandi dimissioni”.
In un contesto, sicuramente anche determinato dalla pandemia e da quanto abbiamo vissuto, di generale rivalutazione delle priorità, come il tempo libero, la salute e gli affetti, sono numerosi coloro che scelgono di lasciare il posto fisso, rimettendosi sul mercato, cambiando azienda o ruolo o passando dal lavoro dipendente a quello di libero professionista.
Ovviamente però queste sono scelte individuali, sicuramente anche coraggiose, ma non tutti sono in grado di permettersele, occorre cambiare il sistema con interventi strutturali e non scaricare la conseguenze delle sue degenerazioni sui rimedi dei singoli individui.
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Caro Gianni, credo che gli effetti essitenziali del Covid, non parlo di quelli clinici, abbiano toccato il nostro rapporto col tempo e con il significato stesso dell’esistenza, richiamando sul proscenio il convitato di pietra che non sempre consideriamo, l’idea della morte, volentieri scotomizzata dalla cultura dell’onnipotenza e dell’immortalità. Se si torna a considerare la finitezza della vita, si è costretti a ridefinire anche il modo in cui impieghiamo il tempo. Un caro saluto
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Proprio così, interessante osservare che a volte, anche nel tempo libero, si tende a mantenere il ritmo veloce e l’atteggiamento impaziente che abbiamo impresso alle nostre vite. Verosimile sia dovuto a una forma di abitudine, ma potrebbe anche trattarsi di una strategia anestetizzante, dovuta al fatto che il fermarsi permanendo faccia a faccia con noi stessi ci procuri una sensazione di inconsapevole disagio, che trova sollievo dandoci da fare distraendoci così da noi stessi.
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Correre per non pensare, caro Bruno, è diventata una polizza di assicurazione ma anche, come sottolinei tu, una forma di anestesia. Fermarsi significa “vedere”, un verbo che costringere ad assumere su di sé delle responsabilità. L’antidoto a questo “rischio” è accelerare tutti i processi, limitare l’uso dei concetti e dei ragionamenti, basta uno slogan costruito bene. Gli istituti specialisti denunciano un grave impoverimento dei linguaggio nei giovani, dunque negli adulti di domani e di oggi, retrocedendo tutti insieme verso forme bipolari di pensiero, tipiche dell’infanzia, dove esiste il nero e il bianco. Una delle conseguenze più tragiche è la nascita di leader politici di immensa povertà interiore, capaci però di parlare quel linguaggio bipolare, adattato a seconda delle circostante.
Oggi guardavo su diversi notiziari, un leader politico che esibiva una croce francescana, è lo stesso che teorizza un mondo dove ognuno rimane a casa propria. Ebbene, in un mondo veloce, semplificato, privo di domande, la croce prevale sulla realtà, parlando direttamente alle emozioni. Così il gioco è fatto. Grazie per questo contributo.
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Buongiorno
Mi fa riflettere tantissimo quanto ho letto…si vita frenetica ..per tanti motivi ..lavoro ecc..a volte però non diamo importanza a situazioni che ci potrebbero fuggire di mano…soprattutto dedicare poco tempo alla nostra famiglia.
Grazie Dott.Barrila’
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Grazie Giusy, le sue poche parole dicono molto e inducono pensieri importanti. Ma il punto è proprio, le omissioni
della cui portata ci accorgiamo sempre “dopo”.
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