“Parleremo di psicologia ossia di normalità, perché questa disciplina è nata per studiare la normalità. Non vedo un mondo invaso dalla patologia, in tutti questi anni non mi è mai accaduto. Vedo, questo sì, disagio, sofferenza, vissuti e timori di inadeguatezza, altri nomi della normalità”.
Queste le parole che un anno fa avevo usato per attivare il blog, e che trovate sulla home page, ne rappresentano il manifesto e lo spirito. Sono chiare e non necessitano di ulteriori passaggi, raccontano una visione della psicologia che non insegue solo la diagnosi, ma si dedica alla comprensione del quadro, delle linee di movimento, perché solo questo permette interventi consapevoli.
Lo consideravo un paio di sere fa, quando si sono presentati i genitori di un bambino di nove anni, che da qualche tempo manifesta paure irrazionali, a seguito di un episodio piuttosto ordinario. Nel comportamento del bambino, figlio unico di due genitori molto semplici e portati ad assecondarlo oltre ogni ragionevolezza, si coglie un finalismo di dominio preciso, perseguito con l’intelligenza sopraffina dei bambini.
Tuttavia, l’aspetto più serio, in questo caso, è la patologizzazione di manifestazioni che patologiche non sono, con conseguente psicoterapia inflitta al bambino, un lavoro che va avanti da un anno con cadenza settimanale e, così mi riferiscono mamma e papà, senza costrutto.
Se ci mettiamo nei panni del piccolo protagonista avremo da recriminare, come lui stesso recrimina, sabotando il trattamento e ammonendo i genitori affinché la smettano di portarlo dalla psicologa. Lui, meglio dei grandi, sa che il problema è altrove e va affrontato con altre armi, soprattutto gli è chiaro che quell’impegno settimanale può essere utile solo se, più che una malattia, si cerca una soluzione tramite un’interpretazione, ossia se si rende chiara la trama di ciò che sta accadendo, così che ognuno possa trovare il suo posto nella commedia e fare ciò che deve fare. A cominciare dai genitori che si sono lasciati sfilare la leadership da un bambino, incartandosi al suo primo capriccio. Quest’ultimo, a sua volta, acclarato che i suoi genitori non possiedono alcuna strategia ma tirano a indovinare, comincia a oscillare tra la paura di non essere in mani sicure e l’esaltazione del potere, che eserciterà in modo sempre più sofisticato, illudendosi di trovare la sicurezza che sente mancare.
Questo dovrebbe essere il compito di un terapeuta, illuminare il campo, permettendo ai giocatori di agire con maggiore consapevolezza.
Dopodiché non ci sono più alibi, anche per chi trova insopportabile avere chiare le cose, consapevole che tale passo avanti lo costringerà a scegliere, sebbene non sempre sia ciò che vogliamo davvero. Un paradosso.
La persona, colta nei suoi lineamenti fondamentali e resa edotta delle strategie implicite nel suo agire, si sente quasi disorientata perché la “possibilità” ora è meno infinita, ed è costretta a guardare in faccia la realtà. Non c’è più l’inconsapevolezza a farci da scudo, permettendoci di lasciare le cose come stavano o di sperare in una svolta magica, assai improbabile.
L’evoluzione da questo stato è ciò che chiamiamo maturità.
Si torna allora alla domanda posta nel titolo, ossia quanto dura una terapia.
Dura, il tempo necessario a creare l’effetto appena descritto, se siamo fortunati anche una sola seduta o un numero tale da non violare gli interessi economici di chi vuole vivere con maggiore consapevolezza, senza dovere operare rinunce significative.
La sofferenza è già un prezzo sufficiente.
Caro Domenico, d’istinto la risposta è “il giusto”, che ha senso solo per chi la può capire. Credo che l’inizio di una terapia sia come la nascita di un figlio: bisogna subito cominciare a muoversi avendo come obiettivo l’autonomia.
Purtroppo oggi troppi psicologi esercitano senza avere il necessario spessore umano – a volte si direbbe senza avere né visione né semplicemente orecchie.
Guardando al mucchio viene il dubbio che abbia ragione la signora che pochi giorni fa ha fatto la battuta: 《”Psicologo” non è una professione, è una diagnosi!》.
Per fortuna ci sono eccezioni, anche luminose. Tanto eccezioni da porsi la domanda e cercare una risposta onesta, grazie.
Rimane aperta l’enorme questione del servizio pubblico: chi lo possa fornire, a quali condizioni, con che tipo di accesso, con che costi… Immagino che se ne parli tra voi professionisti, spero con buonsenso.
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Provengo da una realtà sociale degradata, mi è sempre stato chiaro che una seduta costa, quando va bene, quanto una giornata di lavoro.
Ai colleghi che vengono in supervisione, ricordo sempre questo dato, che si può onorare in tre modi.
-fare in fretta e bene, quando è possibile
-utilizzare un tariffario variabile, ritagliato sulle condizioni del cliente
-usare la gratuità, tutte le volte che se ne riscontra la necessità.
La premessa di tutto ciò è la preparazione del professionista. Quando si preleva, appunto, una giornata di lavoro altrui, è obbligo restiuire adeguatamente.
Naturale che non tutte le ciambelle riescano col buco, siamo tutti sottoposti alla legge del limite e della fallibilità, ma provare ad attenersi a queste premesse è un ottimo punto di partenza.
Per quanto riguarda il servizio pubblico, penso che il nostro costosissimo sistema sanitario, che giustamente cura tutti, dovrebbe trovare il modo per ridurre gli sprechi e attivare strutture di assistenza psicologica di livello, magari applicando un ticket per fasce di reddito, con relativa gratuità per i più deboli. Porrei, però, una condizione, chi sceglie di lavorare nel pubblico dev’essere pagato bene ed esercitare in esclusiva per chi lo stipendia. Grazie
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Prima riflessione: tendiamo ad etichettare tutto, ma le persone non sono riconducibili ad un etichetta. Possono semplicemente avere bisogno di qualcuno che tolga dai loro occhi quei filtri finti che distolgono l’attenzione dalla verità. Il terapeuta ha il compito di illuminare quei binari che già il paziente conosce perché sono i risultati delle sue scelte e di quello che è.
La psicologia lavora nella normalità perché la sofferenza, il dolore sono lati della vita e percui della normalità. Accogliere i sali e scendi della vita, affrontarli come il mare che non si arrende nel riprovare a trovare una forza maggiore per raggiungere la riva.
Seconda riflessione: non tutti i professionisti sono onesti. Spesso si pensa che una terapia per ben riuscire dev’essere per forza di lunga durata. Ma il professionista serio e preparato coglie da subito la situazione che ha davanti e si destreggia per mettere quei fari localizzati sui sentieri giusti che il paziente ha già in testa e lo può fare anche in poche sedute, infatti.
Terza riflessione: ho capito che ci vuole coraggio e parecchia forza per prendere in mano la propria vita con l’aiuto di chi ti aiuta a leggerla nelle difficoltà (anche più volte nel corso degli anni) per far nascere quei frutti, attesi da anni, da fiori che tu già avevi curato e innaffiato. Qualche vicino ti ha ingannato dicendo che quei fiori non sono mai esistiti, lì vedevamo solo nella nostra testa. In realtà c’erano eccome ed emanavano anche un profumo inebriante. Peccato che poche persone sappiano cogliere la vera bellezza, la sensibilità, la tenerezza, la cura. Sono i pilastri che rendono il mondo un posto migliore per i nostri figli che sono il futuro.
Per concludere: è necessario tenersi strette le persone che ti aiutano ad aderire sempre di più alla tua autenticità. Succede che per anni hai camminato in una notte senza stelle e poi ad un certo punto qualcuno ti ha aiutato a trovare il tuo interruttore e tu meravigliato hai iniziato ad ammirare il tuo panorama.
Sono andata oltre la tematica ma non ho potuto fare a meno di aggiungere alcuni particolari a me molto cari.
Grazie a lei per le sue riflessioni preziose.
Silvia
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Cara Silvia, ti ringrazio per la riflessione, ci sono tante considerazioni che partono probabilmente da esperienze personali, ma toccano temi che riguardano la vita di tutti. Grazie ancora
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