La psicologia appartiene alla quotidianità, alle persone comuni

A mano a mano che si avvicina il traguardo cerco di mettere ordine tra le mie carte. Ritrovo un appunto che avevo scritto a penna più di trent’anni fa.

Prima di gettarlo via lo rileggo. “Restituire la psicanalisi alla quotidianità. Sfuggire alla tentazione dell’epica e dello spettacolo, concentrarsi sulle storie di figure minime, di persone comuni, sono loro il tessuto del mondo, dunque la ragione stessa dell’esistenza della psicologia. In fondo siamo tutti figure minime”.

Poche ore prima una signora mi aveva avvisato di uno spettacolo teatrale, una pratica che si è oramai consolidata, recitato da un collega. Si paga un biglietto dal costo non proprio popolare e ci si gode la performance, che forse serve più al protagonista.

Il giorno prima sono in Svizzera, presso un’università del Ticino, intervengo in una giornata di formazione, organizzata con grande cura da un team di persone appassionate. Parlo a circa trecento docenti di quell’ateneo, il mio intervento apre la giornata alle nove del mattino. Dopo i saluti, educati, competenti e per nulla ampollosi, delle autorità, tocca a me.

L’uditorio è attento e rispettoso, un ambiente che non mi ricorda ambiti accademici vicini a noi. Mi comporto come quando mi rivolgo a una platea di genitori, di insegnanti, di persone comuni, come faccio sempre. Naturalmente, seguo una traccia specifica, messa insieme con la cura e il tempo necessari. Mi sono preparato con attenzione ma rifuggendo parole create in un contesto culturale decisamente datato, quando si andava con la carrozza a cavalli e ci si illuminava coi lampioni a gas, espressioni che oggi a ogni persona sensata dovrebbero apparire una caricatura della psicologia. Non mi sono messo in ghingheri, non mi ci metto mai, non ne vedevo il motivo, non era una recita ma un intervento di “servizio”, perché la psicologia è una disciplina di servizio, soprattutto quando si rivolge a una platea di individui che, sovente, cercano un qualche riferimento per rendere meno faticosa la propria vita.

Incontravo esseri umani mossi dai medesimi bisogni dei loro simili, a prescindere dai ruoli di ciascuno, ossia essere rispettati e considerati. Un programma di vita elementare che tuttavia si fa estremamente originale e sofisticato quando è sottoposto all’interpretazione singolare di ciascuno di noi. La psicologia dovrebbe servire proprio a fare comprendere che possono esservi modi malsani per arrivare a quegli obiettivi e, se ne è capace, aiutare le persone a individuarli e abbandonarli, quando è possibile. Noi siamo pagati per questo, solo per questo.   

Nel preparare il mio intervento mi sono attenuto, come sempre, allo spirito di quell’appunto ritrovato che, a sua volta, mi aveva fatto tornare, fulmineamente, alla mente, per associazione, un episodio più recente, quando alla fine di un mio intervento nel corso di una fiera libraria, mi ero imbattuto, nello stand accanto a quello dove avevo parlato, in una povera ragazza dell’organizzazione, davvero affranta. Era appena stata insolentita da un altro mio illustre collega, inferocito dalla carenza di pubblico, che se n’era andato, senza parlare alle poche persone presenti.

Penso che quell’appunto, ritrovato per caso, casuale non fosse, già allora.

10 pensieri riguardo “La psicologia appartiene alla quotidianità, alle persone comuni

  1. Caro Domenico, da collega partecipo profondamente e con entusiasmo il senso delle tue parole. E’ importante tenerlo sempre presente dentro di noi per rinnovare il nostro sguardo in ogni incontro che la vita professionale ci dona. Per onorarne appunto, lo spirito di servizio. Grazie, come sempre Tamara

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    1. Carissima, anche noi siamo dei mediocri, come tutti, per tale ragione anche noi abbiamo il diritto di scalare la montagna, ma non possiamo portare gli altri a fare lo stesso percorso con la giusta misura se siamo i primi a non possederne. Insomma, anche a noi piace piacere, il punto è che tale legittimo bisogno non può diventare il fine del nostro lavoro. Un caro saluto e grazie

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  2. “In fondo siamo tutti figure minime”. Grazie, per queste parole. I Greci invitavano ad ottemperare al ” mai nulla di troppo”. Una traccia per questi tempi in cui un narcisismo esasperato si è innestato in modo sistematico in manifestazioni di ogni ordine: sociale, politico e culturale. Per quanto mi riguarda, subiamo forme soffocanti del vivere o , per meglio dire, del vedersi vivere. Abbiamo perso di vista l’ essere e l’ esserci, il senso e la consapevolezza della realtà effettuale delle cose.

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    1. Cara Giusy, il problema è che questo teatro, che lei chiama narcisismo, genera piccole e grandi idolatrie, che già sono insopportabili in politica, si figuri quando queste andazzo contamina anche ambiti che dovrebbero restarne al riparo. Una biografa di Alfred Adler restò incananta al primo incontro in persona, scrisse di assersi trovata di fronte non al Confucio d’Occidente, come era chiamato quell’uomo, ma a un simpatico vicino di casa. È stata la conoscenza di quello studioso, così sinceramente vicno alla gente comune, a farmi innamorare della psicologia, al punto da decidere di fare questo mestiere. A questo blog sono iscritti colleghi che non vanno mai sui giornali, giovani e meno giovani, le garantisco che alcuni di loro sono delle vere divinità, umane e professionali, al cospetto di chi ci vende mondi suggestivi, ma piuttosto lontani dal pianeta Terra. Un caro saluto e grazie

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  3. Grazie Domenico, per questa riflessione ricca di quella umiltà vera, non di facciata, che ti contraddistingue.
    “In fondo siamo tutti figure minime” e troppi non se ne ricordano, svalvolando come il tuo insigne collega. Avrebbe molto da imparare da un (oggi) famoso showman che agli inizi, si trovò con cinque persone di numero in teatro: fece bene il suo spettacolo e alla fine salutò dicendo “Per me noi da oggi siamo parenti”.
    Purtroppo i tipi come il tuo collega tendono, magari inconsciamente, a coniugare questa tua bellissima frase in una sprezzante seconda persona, “siete tutti figure minime”, perdendo così l’apertura sorprendente che porterebbe con sé: una figura minima può essere una finissima miniatura, a patto che si abbia la pazienza di esplorarla.

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    1. Il punto, cara Giulia, non è solo lo spettacolo e quella certa, infantile, voglia di applausi, il vero problema è che noi siamo pagati per fare altro, sopratutto per studiare e approfondire. Ti garantisco che per quanto io cerchi di contingentare il lavoro e gli impegni, il tempo per imparare non è mai abbastanza. Allora ti domandi come fanno queste persone a dedicarsi con attenazione ai loro pazienti e alle loro famiglie se passano la vita a cercare visibilità. Perlomeno potrebbero accantonare la pretesa di avere qualcosa da insegnare al mondo.
      Un caro saluto e grazie

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  4. Quel non casuale appunto di trent’anni fa è una stella polare, riportare la psicologia alla sua dimensione umana, quotidiana, lontana da palcoscenici e narcisismi.
    Che in realtà vale per la sua disciplina ma potrebbe applicarsi anche a molte altre dimensioni, cito la prima che mi sovviene, ad esempio la politica.
    In un tempo in cui la spettacolarizzazione rischia di svuotare di senso ogni cosa, le sue parole ci riportano all’essenziale. Grazie per averle condivise con lucidità e umanità.

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    1. Caro Gianni, è onesto dire che di questa deriva siamo tutti responsabili, proprio tutti. Siamo mossi da questo bisogno struggente di lasciare tracce di noi, considerata la finitezza cui siamo sottoposti. Il problema è la misura ma soprattutto l’incredibile, ostinata, attitudine a seguire pifferai di ogni genere e in ogni ambito. Questo ci farà precipitare tutti in un gorgo, intorno a noi i segnali sono inquietanti e i nostri figli rischiano di pagare le conseguenze di colpe di cui non sono responsabili. La mia disciplina dovrebbe essere il primo antidoto a questo rischio.
      Alfred Adler è stato un esploratore geniale della psiche, ma secondo alcuni biografi non aveva accanto un buon ufficio stampa, oggi, invece, sembrano esistere solo uffici stampa mentre gli esploratori geniali sono quiescenti, in compenso si fanno largo esili figuranti, cacaci di impacchettare in modo scenografico concetti vecchi ma in realtà li contagiano del loro vuoto vuoto. Un caro saluto e grazie

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  5. Caro Domenico, grazie per la riflessione condivisa. Pensando al mio ambiente religioso spero sempre che il servizio a cui siamo chiamati, come la psicologia che descrivi, dovrebbe essere una disciplina di servizio, un supporto per rendere meno faticosa la vita. Quando un esponente religioso si allontana da questi principi, trasformando la propria missione in una performance o in un’occasione per mettersi in mostra, la delusione è forte. La tristezza che emerge da questa situazione deriva dalla percezione di un tradimento. Mentre un professionista di un altro settore può essere criticato per la sua superbia, una figura religiosa è chiamata a incarnare valori che escludono l’egocentrismo. La sua missione è quella di essere un mediatore, non il protagonista. Quando la ricerca di visibilità o la reazione stizzita di fronte a una platea ridotta prendono il sopravvento, si perde non solo la credibilità della persona, ma anche la forza e l’autenticità del messaggio che dovrebbe veicolare.

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    1. Quello che dici, caro Andrea, dovrebbe farci riflettere tutti, proprio perché parli di un ambito, spirituale, che dovrebbe essere in parte al riparo da quella tentazione. In questi giorni mi interrogo sulla canonizzazione di Carlo Acutis, sulla vera e propria sponsorizzazione operata dai suoi ricchi familiari, e mi chiedo se la tua Chiesa necessita di questa produzione di santi, come se l’essenzialità di Gesù non bastasse. Forse anche questo dice qualcosa.
      L’altro giorno mi chiedevo se quando facciamo un gesto educativo pensiamo alla creatura cui è indirizzato oppure al nostro amor proprio, sovente, purtroppo, il beneficiario vorrebbe essere proprio l’individuo che lo emette. C’è proprio questo alla base di tanto malessere, giovanile e adulto. Il tuo Gesù, proprio per superare questo equivoco, si è dovuto immolare, altrimenti sarebbe rimasto il dubbio e tutto si sarebbe risolto in una recita, la stessa che suo padre volle evitare rifiutandosi, con dolcezza, di cedere alla supplica del figlio, che temeva la croce.
      Cedere parti di noi, con sincerità, questo deve fare chiunque esercita il tuo e il mio mestiere o svolge un qualsiasi ruolo educativo, ma a noi nessuno chiede di immolarci, neppure può pretenderlo, tuttavia da queste figure le persone hanno il diritto di aspettarsi un rapporto equilibrato coi pesi e con le midure, una giusta dose di attenzione per noi stessi, che non ecceda la ragionevolezza.
      Eppure, sono proprio le persone, il popolo (come si usa dire nei regimi) a incoraggiare quella teatralità, premiando i buoni mercanti di sé stessi. Lo vediamo nel tuo ambito, nel mio, nella politica e in mille altri contesti dove gli eccessi di “sé” portano rovine (pensa ai leader mondiali in questo periodo).
      Il “difetto”, se vogliamo chiamarlo così, è proprio “nell’uomo”, nel suo bisogno di liberarsi dal timore di essere niente, sovente trasformato da noi educatori in una vera e propria ricerca di potenza, non di rado fine a sé stessa. Le nuove generazioni vedono e registrano, ma noi ci chiediamo da dove arrivano certi comportamenti di bambini e ragazzi. Un caro saluto e grazie

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