Abusi di soggettività. La difficile arte di bussare con garbo alla porta dell’infanzia.

Stig Dagerman, in poche righe, e forse senza volerlo, descrive la più mastodontica sovrapposizione di mondi a noi nota. Quelli degli adulti su quelli dei piccoli.

“Mettiamo che siano le sette di sera. Fuori è tutto buio. Certi animali si addormentano, mentre altri si svegliamo e si addentrano nel bosco. Tu hai costruito sul pavimento della cucina una torre altissima. Più alta di così non può diventare, altrimenti crolla. Per questo vai alla finestra e rimani a guardare un camion addormentato e una stella quasi rossa. Proprio in quel momento ti chiama la mamma: ‘Olle, è ora di andare a dormire’.
Però è strano, tu non sei per niente stanco. Potresti tranquillamente rimanere alzato tutta la notte. Si, riusciresti tranquillamente a camminare sulle mani fino in Cina, se ti lasciassero restare alzato abbastanza. Ma non puoi. Devi ubbidire”.

Una simile circostanza, Stig poteva solo immaginarsela, desiderarla, la sua mamma lo aveva abbandonato da piccolissimo e il padre era lontano, faceva il minatore dalle parti di Stoccolma, non c’era nessuna mamma a chiamarlo per nome e appena un frammento di papà, che il bambino poteva evocare solo con la fantasia. Crebbe coi nonni paterni. Vecchi e bambini, uniti da un potente bisogno d’affetto, sovente si rendono complici.

Non poteva Stig, dunque, conoscere la sensazione di appartenenza che ti trasmette una madre quando ti invita ad andare a dormire, forse era questo, in fondo, ciò che egli desiderava, qualcuno che lo chiamasse. Possibilmente tenendo conto del fattore tempo e del senso di opportunità. Una donna mi racconta che quando era piccola godeva di una libertà illimitata, perché i suoi si fidavano di lei, eppure “quando veniva l’ora di cena e le mamme dei miei amici li chiamavano a voce, dal ballatoio della cascina, perché si ritirassero a mangiare, a me mancava qualcuno che mi chiamasse”.

In compenso conosceva bene, il futuro intellettuale svedese, l’ebbrezza dell’appartenere a se stesso, condizione, anche questa che amava, perché poteva spaziare e fare il libero cercatore, chissà se tutto questo possiede qualche legame con la scelta di diventare anarchico, con lo sviluppo di quella impagabile libertà di pensiero che ci regalò folgoranti intuizioni, fino al suicidio, avvenuto a poco più di trent’anni.

Quelle parole di Dagerman bambino, tuttavia, nascondono una domanda per noi adulti, sulla quale indugio da anni, ossia quanto abbiamo impoverito il mondo intero togliendo la parola alle nuove generazioni, parlando al loro posto, presumendo che esista una gerarchia naturale, fondata sull’anagrafe e non sul reale valore dei contributi.

Chiunque si occupi di bambini e di ragazzi, a qualsiasi titolo, dovrebbe chiedersi se abbia mai partecipato a questo doppio abuso di soggettività. Da una parte, spedirli a letto a prescindere da ciò che stanno trafficando in quel momento, senza considerare il loro desiderio di osservare camion addormentati e stelle rosse. Dall’altra, dimenticare che i bambini amano essere reclamati, chiamati per nome, perché così pare loro di esistere, di essere annidati nel pensiero e nel cuore di qualcuno.

Una mamma, un papà, una maestra, un adulto, un qualsiasi adulto, non devono mai stancarsi di cercare un punto di equilibrio tra questi due diritti, senza i quali non c’è infanzia né vi sono fondamenta solide per il mondo.     

4 pensieri riguardo “Abusi di soggettività. La difficile arte di bussare con garbo alla porta dell’infanzia.

  1. Carissimo Domenico tutti i testi scolastici specialmente quelli della secondaria di 1° e 2° grado, e specialmente quelli di storia, letteratura e di poesia, è da tanto tempo che non fanno altro che abusare del lor pensiero critico e interpretativo nei confronti di giovani che potrebbero prendere la parola su tutto. La dote interpretante (tipica della nostra specie) a scuola viene troppo spesso tarpata nei giovani, per interpretazioni che si definiscono intelligenti quando ogni interpretazione è costruita su basi personali. Quindi: i bimbi crescono, la mamme imbiancano e i docenti appiattiscono il senso della vita che, al contrario, spetterebbe ai giovani liberare il proprio personale significato delle cose, della vita e del mondo. Ciao Maurizio

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    1. Sono in Calabria per lavoro, un paio di conferenze. Oggi cercavo di misurare il costo di questo orrendo riduzionismo, il pensiero, spesso geniale, del bambino, che non riesce a superare i confini posti dall’adulto di turno. Pensa, caro Maurizio, quanti e quali giacimenti di originalità dispersi, quale contributo sottratto alla causa comune.

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  2. Ho letto l’intensa scrittura di Domenico stamattina presto mentre ero in metropolitana e mi accingevo ad entrare in una scuola primaria per incontrare un gruppo di bambini.
    Un piccolo incolla veline colorate con meticolosità. I suoi gesti sono densi di una storia che urge di essere narrata. Il suo lavoro segue un percorso diverso da quello di tutti i suoi compagni. C’è un orologio che prende forma, un contorno, delle lancette con un quadrante rosso, un’area bianca al centro, delle parole su veline gialle che appiccica ai quarti d’ora, tra cui sciopero. Il piccolo non conosce l’esatto significato della parola in lingua italiana ma per lui quella parola ha un preciso, profondo significato. La storia che prende forma mentre mi parla racconta di ritmi, di soste, di pieni e di vuoti.
    E poi il cambio ora e il momento per noi di salutarci.
    L’insegnante che subentra rimprovera il piccolo perché avrebbe dovuto riempire tutto lo spazio bianco con le veline colorate secondo un’ipotizzata consegna.
    Lui guarda con occhi scuri smarriti. Poi s’incupisce, non capisce, si chiude, abbassa lo sguardo … un attimo sospeso, un momento densissimo … il suo orologio, il suo racconto, lui nel suo racconto … ma ecco che parole bonificanti di altri adulti presenti e dell’insegnante illuminata dell’ora appena conclusa irrompono per sancire altro, raccolgono la sua storia, la proteggono dall’ottusità e la fanno ancora volare.
    E così, in pochi attimi, ho pensato agli abusi di soggettività di noi adulti e a quelle storie che invece incontrano cuori e i pensieri dove potersi accoccolare.
    Grazie Domenico, come sempre.
    Tamara

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    1. Prova a immaginare, cara Tamara, come si sentiva quel bambino, in balia di oscillazioni che non comprendeva. Quello che stava facendo era giusto per l’adulto presente ma poi ne è arrivato un altro, di parere opposto. Il bambino e il suo lavoro, però, erano i medesimi. Tuttavia, stavolta è andata bene, la quasi totalità degli adulti presenti virava dalla parte giusta, ma pensa, invece, cosa accade quanto l’arbitrio vince e il bambino è costretto a subirlo, malgrado avverta di avere fatto la cosa giusta.

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