Il custode ci aveva avvertiti. Lui prendeva gli straordinari fino a mezzanotte, ragione per cui a quell’ora avrebbe chiuso i battenti, come puntualmente avvenne.
“Signori, devo chiudere, bisogna uscire”.
Quella sera faceva freddo, molto freddo, me lo ricordo bene perché, fidando nella brevità del tragitto tra il parcheggio e il luogo dove presentavo il mio libro, avevo lasciato il cappotto in macchina. A metà strada, un uomo, gentilissimo, mi aveva intercettato, chiedendomi un consiglio. L’unico suo figlio, sedicenne, era affetto da distrofia muscolare, patologia che offre una speranza di vita piuttosto modesta, circa un terzo di quella generale. Da qualche tempo frequentava un gruppo di ragazzi affetti dalla sua stessa malattia, ma ultimamente, dopo la morte di un coetaneo conosciuto proprio in quel contesto, era diventato molto nervoso e trattava sgarbatamente i genitori. Ora il papà voleva sapere se c’era un modo per attenuare quegli eccessi.
Se faccio il conto degli anni trascorsi da quella sera, temo che il figlio non ci sia più, il tempo limite è raggiunto e superato, eppure l’episodio rimane presente nella memoria, soprattutto la risolutezza del padre che, malgrado sapesse della vicinanza dell’epilogo, non cercava compassione, voleva semplicemente educare suo figlio fino all’ultimo dei suoi giorni, senza concedergli o concedersi alibi, perché neppure quella drammatica condizione poteva giustificare reazioni maleducate.
Confesso di provare soggezione ogni volta che ci ripenso o che racconto quella storia. Sento che viene toccato qualcosa di cui non riesco a darmi conto, forse è quell’ostinata volontà di educare malgrado tutto, come a dire “io faccio la mia parte, la vita di mio figlio non dipende da me, mi occupo solo di quelli che sono i miei compiti, di ciò che riesco a tenere sotto controllo”.
Viene in mente la miriade di giustificazioni e salvacondotti prodotti quotidianamente dai genitori a difesa dei figli, non solo a scuola, e alle conseguenze che questi comportamenti depositano sulla prole stessa e sulla collettività.
Si, penso spesso a quel padre, anche in questa assolata mattina di agosto, immaginandolo su una spiaggia, con la moglie accanto, in silenzio, a guardare insieme il mare, le acque da dove è sorta la vita in tempi remoti, una vita a cui comunque sono grati.
Caro Domenico, io provo soggezione ogni volta che la racconta.
Mi coglie stamattina mentre faccio i conti con l’ultimo dei miei tanti fallimenti educativi cercando il modo di ricostruire con questa montagnella di macerie.
E almeno, grazie a quel padre e grazie a lei, non mi sento sola.
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In nessuno degli ambiti noti è ammessa una quantità di errori e riparazioni come nel rapporto educativo, quello che conta è la capacità di interrogarsi senza indulgenza, come ci insegna quel padre, un uomo che quasi tutti i giorni viene a visitarmi nella memoria dandomi coraggio, sia nel mio lavoro che nell’esercizio della paternità.
Alla faccia della psicologia. Un caro saluto e grazie
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